L’accusa era pesantissima, soprattutto sul fronte economico: 10,5 milioni di euro da risarcire per un presunto danno erariale alla Regione. La cifra più alta era stata chiesta a Carlo Lucchina, per dieci anni plenipotenziario della Sanità in epoca Formigoni: 3,279 milioni, circa un terzo del totale. Il 10 gennaio è stata depositata la sentenza della Terza sezione d’appello della Corte dei Conti che lo ha assolto in via definitiva, a 17 giorni dalla sua scomparsa alla vigilia di Natale all’età di 75 anni.
Come lui, sono stati prosciolti gli altri dodici imputati, tra i quali figuravano ex assessori e manager della sanità lombarda come Luciano Bresciani, Maria Cristina Cantù, Walter Giacomo Locatelli, Mario Melazzini (che oggi dirige il Welfare) e Mara Azzi. La materia del contendere ruotava attorno all’approvazione della Giunta regionale, tra il 2007 e il 2012, di una serie di accordi integrativi che hanno "riconosciuto, a favore dei medici di continuità assistenziale operanti sul territorio regionale, la maggiorazione di un euro l’ora sul compenso orario stabilito dalla contrattazione nazionale".
L’aumento della retribuzione alle guardie mediche per i magistrati contabili avrebbe introdotto un extra "sganciato da qualsivoglia riscontro delle prestazioni aggiuntive (rispetto a quelle ordinarie)" che il personale avrebbe effettivamente reso; posto che, ulteriore argomentazione, "la predetta maggiorazione oraria era stata prevista per garantire prestazioni gratuite a favore di tutti gli utenti del servizio sanitario regionale, con la conseguenza che tale sistema, dando luogo a una sorta di remunerazione “a pioggia”, si poneva in contrasto con la disciplina legislativa di riferimento che esclude in radice che possano essere erogati trattamenti accessori che non corrispondano a prestazioni effettivamente rese". Tesi sconfessate in toto dal collegio presieduto da Giuseppina Maio, che, in linea con quanto deciso in primo grado, ha reputato infondata l’impugnazione della Procura.
Il motivo? La scelta di includere nell’ambito dei livelli di prestazioni "non differibili rese dai medici di continuità assistenziale" anche quelle agli assistiti dal sistema sanitario regionale "in deroga agli ambiti territoriali" (tradotto: ai non residenti) è, per i giudici, "non sindacabile nel merito, perché rientrante nell’alveo delle policy sanitarie regionali". Senza dimenticare che lo stesso accordo nazionale prevedeva un livello di negoziazione regionale, con l’attribuzione del compito di definire "gli incentivi di struttura, di processo, di livello erogativo, di partecipazione agli obiettivi e al governo della compatibilità, nonché incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi di qualificazione e appropriatezza". Conclusione: tutto legittimo. E nessun danno erariale.
Giulia BonezziNicola Palma