di Nicola Palma
"Ma voi avevate l’impegno...". "Sì, l’impegno ce l’avevo, però non è giusto che vanno e vengono... che non mi facciano qualche cosa... qualche interdittiva... qualche cosa eh!". 4 febbraio 2019, siamo a Tropea, costa tirrenica della Calabria, località balneare che domina la Costa degli Dei: un imprenditore, titolare di un b&b quattro stelle, chiama Tonino La Rosa per lamentarsi del continuo passaggio in motorino di personaggi legati al suo clan. Dal tenore della conversazione, si capisce che l’uomo è sotto scacco delle ’ndrine, anche se pare avere un’unica preoccupazione: che il viavai non venga notato dalle forze dell’ordine. Detto altrimenti: so che devo pagare, ma se fate così rischio la chiusura. I soldi arriveranno, in due tranche da 10mila euro l’una, seppur con qualche mese di ritardo.
Da dove? Emerge dal contenuto di un’altra conversazione: l’imprenditore va a recuperarlo nelle casse dell’istituto di istruzione privata (corsi serali, lezioni individuali e preparazione agli esami di Stato) che dirige in pieno centro a Milano. "Ha detto che fra un po’ di giorni che viene e me li porta – assicura La Rosa all’interlocutore Demetrio Putortì il 30 maggio 2019 –... che si trovava in difficoltà... e ha detto “il tempo che vado a Milano a raccogliere i soldi fine stagione della scuola e te li porto”". Secondo quanto emerso dall’operazione "Olimpo" della Dda di Catanzaro, che ieri all’alba si è chiusa con 56 arresti, il "Professore" – così lo chiamavano – era solo uno dei tanti operatori economici che versavano "una percentuale sul fatturato annuo" ai clan che asfissiano la provincia di Vibo Valentia. "Gli esiti di questa indagine rivelano la massiva attività di estorsione caratterizzata dall’assenza di denunce da parte degli imprenditori e la capacità da parte delle cosche di possedere il territorio", la sintesi del prefetto Francesco Messina, direttore centrale Anticrimine della polizia. Tra i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Chiara Esposito, c’è pure il quarantaseienne polacco Damian Zbigniew Fialek, recidivo, ammanettato in Brianza dagli agenti della Squadra mobile di Milano, coordinati dal dirigente Marco Calì e dal funzionario Nicola Lelario: gli atti lo descrivono come l’uomo di fiducia che aiutava i La Rosa a reinvestire i proventi dell’attività illecita nell’economia legale, in particolare distribuendo casse di vino a ristoranti e locali con etichette contraffatte che ne facevano lievitare il prezzo.
"Su 18mila bottiglie, 3mila quelle da truffare...", il calcolo del carico a disposizione. In un altro dialogo captato dagli inquirenti, Fialek si produce anche in un calcolo approssimativo del guadagno generato dalla truffa ai danni degli acquirenti, col beneplacito del fornitore: "Io sono andato, ho controllato vino, ho aperto le bottiglie... sono praticamente belle bottiglie, vino buono, perciò lui mi dà il vino bianco, etichette del 2017... siamo a cavallo e vino rosso mi dà etichette... dice “scegliti l’etichetta più cara che ho, ché te la do e te la incolli tu però... scendiamo giù in garage e le incolliamo... quando noi andiamo a vendere, 25-30 euro a cartone prendi". Ultima nota per i fratelli gemelli Emanuele e Simone Melluso, ritenuti esponenti di spicco dell’omonima famiglia di Briatico: gli uomini della Mobile li hanno intercettati nell’hinterland milanese, dov’erano di passaggio per far visita a un parente.