Milano – Un’inchiesta giornalistica sulla valle del Vajont e la sua diga, che nel 1959 sollevò l’allarme su pericoli legati al bacino artificiale della Sade, non conteneva "notizie né false, né esagerate né tendenziose, dato che l’autore si è limitato ad esercitare il riconosciuto diritto di cronaca". Se turbamento dell’ordine pubblico vi era, in sostanza, questo dipendeva dalla costruzione dell’infrastruttura che poi, la sera del 9 ottobre 1963, sarebbe stata al centro del disastro ricordato in questi giorni anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: 1.917 vittime, tra cui 487 bambini e adolescenti, e interi paesi sommersi dall’acqua al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. Una sentenza milanese, emessa il 30 novembre 1960, tre anni prima della catastrofe, rispunta nei giorni dell’anniversario. A scriverla fu il giudice Angelo Salvini, presidente del collegio del Tribunale di Milano che assolse con la formula "perché il fatto non costituisce reato" la giornalista-scrittrice Clementina ‘Tina’ Merlin e l’allora direttore del quotidiano L’Unità, Orazio Pizzigoni.
Erano accusati del reato di cui all’art. 656 c. p., pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico (un reato di “opinione” ormai scomparso dal codice) per un articolo pubblicato il 5 maggio 1959. Un’inchiesta sul progetto, anche attraverso le voci di chi abitava nel paese di Erto messo a rischio da "un bacino artificiale di 150 milioni di mc di acqua che un domani (...) potrebbero far sprofondare le case nell’acqua".
La giornalista Tina Merlin, che fu partigiana e alla fine degli anni ‘50 combatteva una battaglia solitaria contro il progetto del bacino, fu denunciata dai carabinieri di Erto su input del conte Vittorio Cini, ultimo presidente della Sade. E il processo davanti al Tribunale di Milano si concluse con un’assoluzione, con motivazioni nette e messe nero su bianco dal giudice che successivamente ha presieduto per anni la Corte d’Assise, occupandosi nel corso della sua carriera di casi come l’omicidio del giornalista Walter Tobagi, l’Anonima sequestri di Luciano Liggio, le Brigate Rosse.
"Quando è avvenuto il disastro del Vajont avevo dieci anni, quella sera ero in salotto con mia madre, mia sorella e mio padre e stavamo guardando la televisione", ricorda il giudice Guido Salvini, che ha seguito le orme del padre Angelo con un percorso da magistrato che lo ha portato a occuparsi di mafia, terrorismo, criminalità economico-finanziaria, stragi come quella di piazza Fontana. "Quando arrivarono le prime notizie frammentarie e le immagini in bianco e nero sul disastro mio padre si alzò in piedi e disse: Lo avevamo detto, ma non ci hanno ascoltati. Ho un ricordo molto nitido”.
Il giudice Angelo Salvini, scomparso dieci anni fa, si riferiva proprio a quella sentenza del 30 novembre 1960 (pubblicata sulla rivista Quale Giustizia nel 1974). Durante il processo furono ascoltati testimoni, confermando che "il bacino artificiale costituisce un serio pericolo". Fra chi abitava a Erto era "diffuso l’allarme", uno stato d’animo "di preoccupazione e di ansia". Stato d’animo che Tina Merlin rappresentò nel suo articolo, facendosi portavoce di un grido di dolore della comunità locale che purtroppo, nonostante la sentenza del presidente Salvini, rimase inascoltato, fino alle più tragiche conseguenze.