
Gianluca
Pietrantonio*
Il mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi
sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo continuativo nel tempo e con modalità diverse, con
finalità o conseguenze di estromissione del soggetto da un determinata posizione professionale.
La violenza morale è esercitata mediante attacchi contro la persona del lavoratore, il lavoro svolto, la
funzione ricoperta e, infine, lo status del lavoratore, da parte di un singolo soggetto protagonista (mobber),
generalmente identificato come un superiore. In alcuni casi viene coadiuvato da dinamiche di gruppo
complesse, intrecciate e gestite da un “coro” di colleghi che concorre in maniera più o meno consapevole
alla violenza psicologica sia con atteggiamento di attiva partecipazione, sia come testimone passivo,
incapace di contrastare tale attività per presunte convenienze secondarie.
Il mobbizzato viene continuamente umiliato, offeso, isolato e ridicolizzato sia per la vita professionale che
privata. Il suo lavoro viene deprezzato, continuamente criticato o addirittura sabotato e svuotato di
contenuti. Il soggetto viene privato degli strumenti necessari a svolgere la propria attività (sindrome da
scrivania vuota) o, viceversa, sovraccaricato di lavoro o compiti impossibili da portare materialmente a
termine o inutili, ma tali da provocare sentimenti di frustrazione e di impotenza (sindrome da scrivania
piena). Il ruolo del dipendente mobbizzato viene declassato e messo sempre in discussione. In alcuni casi
possono essere messe in atto anche azioni sanzionatorie, spesso pretestuose, mediante uso eccessivo di
strumenti quali visite fiscali e contestazioni disciplinari.
*Psicologo psicoterapeuta