Un barcone di migranti soccorso dalla marina militare italiana (Lapresse)
Milano, 17 gennaio 2017 - “In quarant’anni di carriera non ho mai sentito di un orrore simile”. Fatica a trovare le parole per descrivere violenze e abusi, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, che insieme al procuratore Francesco Greco e al pm Marcello Tatangelo ha coordinalo le indagini su Osman Matammud, il 22enne somalo a capo del campo di raccolta clandestino per migranti di Bani Walid, a 150 chilometri a sud-est di Tripoli in Libia. Il centro non era un semplice luogo di transito per chi poi voleva ripartire alla volta dell’Italia, ma era “un lager nazista”. Omicidi, stupri, torture erano all’ordine del giorno. “Le vittime – ha aggiunto Boccassini – ci hanno parlato di violenze inaudite. Ci hanno colpito soprattutto il coraggio e il pudore con cui le donne hanno riferito delle violenze subite ogni giorno”.
Matammud è stato arrestato il 26 settembre dalla Polizia Locale. Era arrivato a Milano la sera prima e si trovava come tanti altri migranti all’hub di via Sammartini. Due ragazze ospiti del centro del Comune di Milano, che erano state tra le sue vittime, lo hanno riconosciuto e con l’aiuto di altri migranti lo hanno bloccato. Abbastanza per farlo finire in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nei mesi successivi gli agenti della polizia locale, coordinati dal comandante Antonio Barbato, hanno scavato più a fondo. Il 22enne dirigeva la struttura – un hangar affollatissimo, sorvegliato da guardie armate - da almeno un anno con incredibile ferocia. I profughi restavano in media due mesi nel campo, ma la detenzione poteva durare fino a otto o dieci mesi. Se la prigionia superava un anno, venivano uccisi. Per tutti le violenze erano costanti. L’obiettivo era indurre i parenti in Somalia a pagare somme che arrivavano fino a 7000 dollari per assicurare ai loro cari un posto sui barconi diretti in Italia, ma quando le somme arrivavano, le torture non cessavano. “Le donne, quasi tutte infibulate, venivano abusate praticamente ogni giorno mentre gli uomini erano costretti ai lavori forzati in una struttura vicina e venivano picchiati con spranghe e bastoni fino a frantumare loro le ossa”, ha aggiunto il pm Tatangelo. Se non erano non erano abbastanza rapidi nel lavoro o se i familiari ci mettevano troppo a mettere insieme i soldi del riscatto, scattavano le torture. I guardiani “incendiavano sacchetti di plastica che erano stati collocati sulla schiena della persone, finchè la plastica non si scioglieva”. Nel campo, poi, c’era una vera e propria stanza delle torture, dove i prigionieri venivano picchiati e seviziati sotto la guida di Matammud, anche con la corrente elettrica e in alcuni casi anche uccisi. “Le salme venivano esposte come monito per gli altri”, hanno spiegato gli inquirenti.
L’indagine pone in primo piano “il problema del rispetto dei diritti umani in questi campi di raccolta dei profughi, che credo sia un problema sia delle strutture clandestine, che di quelle ufficiali – ha concluso il procuratore Francesco Greco - . Quando ci troviamo a stipulare trattati con Paesi come la Libia credo che l’Europa e l’Italia debbano pretendere l’assoluto rispetto dei diritti umani”.