DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Alessandro Bergonzoni, tra “altrismo” e “congiungivite”: oltre la realtà, fuori da social e tv

Il giocoliere delle parole sul palco dell’Elfo Puccini a Milano con Arrivano i dunque: “Sbellichiamoci dalle risate per liberarci dalla guerra”

ALESSANDRO BERGONZONI RITRATTI - CHIARA LUCARELLI24

Alessandro Bergonzoni torna sul palco dell'Elfo Puccini

Sbellicarsi. Succede spesso a teatro con Alessandro Bergonzoni. Mentre il linguaggio sembra esplodere: si aggiunge senso, i giochi di parole sono ragnatele di rimandi. E così la risata diventa (quasi) un invito ad abbandonare ogni conflitto. A lasciarsi la guerra alle spalle. Sbellicarsi, appunto. Questa volta per il debutto di “Arrivano i dunque“, da oggi in prima nazionale all’Elfo Puccini. Comicità e tensione morale. Ubriacandosi di calembour e neologismi. Per ragionare di congiungivite. Di crealtà. Concetti che già piacciono, qualsiasi cosa significhino.

Bergonzoni, cos’è questa crealtà?

“Non possiamo più fidarci della realtà. Dobbiamo ovviamente continuare a misurarla, comprenderla, combatterla. Ma c’è la necessità di andare oltre, di portare una frequenza diversa attraverso la parte artistica presente in ognuno di noi, senza elitarismi. Seguire il nostro essere “altrista“”.

Non sarà mica una fuga?

“No, assolutamente. La parola che si abbina a tutto questo è “anche“: io vivo la realtà ma vado anche oltre, in un territorio che richiede l’infinito. Come dicevo qualche anno fa, a fianco della protesta dobbiamo iniziare a capolavorare, a diventare opera e capolavoro in quello che facciamo. Ovunque. Rispondere alla domanda: decidere o decedere? Subire o non subire? Anche nella comicità, ma senza satira o ironia, che non mi appartengono”.

Si percepisce una tensione spirituale.

“Ma non religiosa, che è diverso. C’è sicuramente qualcosa che ha a che fare con il tema dell’anima, della coscienza collettiva, delle cellule in contatto a km di distanza. Perché anche se ci muoviamo in isole verdi e felici di soddisfazioni, non possiamo dimenticare che intorno a noi ci sono deserti di sabbia e mari in cui si annega. E allora non devo avere una figlia iraniana per difendere le donne iraniane. Il ragazzo ucciso a Napoli mi riguarda anche se non è il mio di figlio. Ci viene chiesto un coming in per mostrare come siamo dentro. E infatti mi denuderò e fustigherò in scena”.

Senso di colpa?

“No, è senso di polpa. Arrivare a ciò che sta da un’altra parte attraverso una catarsi, scegliendo di non essere più conniventi. L’immedesimazione è un concetto fondamentale per sentire l’altro. E poi c’è la congiungivite”.

Immagino non sia un’infiammazione.

“È quel collegamento che dovrebbe scattare fra situazioni ed esistenze. Se durante l’alluvione una donna in Romagna chiede aiuto a un gommone che sta passando, come possiamo non collegarla alla stessa immagine di un profugo? Sono entrambe vite che fuggono dalla morte e dall’acqua”.

Perché prende le distanze dalla satira?

“Adoro Paolo Rossi, Crozza, Guzzanti che lavorano sulla parodia del politico e del dittatore. Quindi mi ritrovo fra l’incudine e il martello. Ma oggi faccio grande fatica a ridere di Trump, di Putin, di Elon Musk. Di quelle figure talmente grondanti sangue che non riesco a scrollarle via con una risata. La comicità è una grammatica inscindibile dal mio lavoro. Preferisco diventare altro, invece di accogliere il sardonismo, la satira pret-a-porter, un po’ di solletico con l’obiettivo di sdrammatizzare. Per questo amo la parola sbellicarsi: ridere e liberarsi dalla guerra”.

Usa i social?

“No, non ci sono. Con orgoglio. E mi piace quando si fermano per strada per dirmi che sono contenti di non avermi visto in una determinata trasmissione in tv. Questo per me vale centomila “mi piace“. Anche se ho molto pensato a questa cosa, al fatto che con una puntata raggiungi milioni di persone, un numero di spettatori che sul palco ci metterei vent’anni”.

Ma il contenitore fa sempre il contenuto.

“Esattamente. Se ti proponi in un certo modo in televisione raccontandoti che però poi farai un lavoro serissimo a teatro, non ti accorgi che le persone inizieranno a cercarti per come ti hanno visto in tv. E non è questione di coerenza a tutti i costi, per me uno può cambiare idea la mattina. Ma rispetto alla poetica il discorso si complica”.

Le è capitato?

“Mi hanno proposto la pubblicità di un operatore telefonico, avrei dovuto parlare di energia, frequenze, campo. Come sarei poi andato sul palco ad affrontare gli stessi temi dal punto di vista della quantistica o della telepatia? Quindi scelgo al limite le pubblicità sociali per quelle realtà a cui mi sento vicino, come la Casa dei Risvegli, di cui sono andato a raccontare al Parlamento Europeo. E qui si torna al tema del diventare opera”.

Le sue di opere sono invece esposte alla Galleria Mudima.

“Il mio teatro non può essere tradotto. L’arte mi offre però un linguaggio internazionale. E spero si noti una continuità con quello fatto fino ad ora”.