Milano – Tutte le inquietudini del Novecento in un solo corpo: Zeno Cosini. Uomo senza qualità dallo sguardo ironico e non in sintonia. Con la vita e con il mondo. L’inconscio fuori fuoco. Proiettato (suo malgrado) verso gli incubi e le irrequietezze esistenziali di quel secolo agli esordi. Compresa la bomba, lì nel finale. Si potrebbe andare avanti a lungo. Certo è sempre una sfida trasferirlo a teatro. E questa volta ci ha pensato Paolo Valerio per lo Stabile del Friuli, anche autore della riduzione da Italo Svevo, insieme a Monica Codena. Il suo “La coscienza di Zeno” arriva da martedì al Carcano di Milano. Protagonista Alessandro Haber. Con lui un bel cast corale. All’interno di un allestimento fascinoso. Parecchio psicanalitico. Ovviamente.
Haber, anche lei è un non allineato?
“Mi piace quella frase di Zeno: “La vita non è né brutta né bella, ma è originale”. Ecco, a me non piace la perfezione, non mi interessa proprio. Però a livello professionale non ho mai abbandonato uno spettacolo in vita mia. Solo che nel processo creativo cerco le contraddizioni, cerco la crisi”.
Anche in questo caso?
“Ancora di più. Perché di solito la crisi mi arriva una volta conclusa buona parte del lavoro, momento di ripensamento per trovare la giusta chiave di lettura e proseguire. Qui invece le prime due settimane sono state un inferno. Il personaggio mi faceva stare male, d’altronde sono un attore intimista”.
Cosa intende?
“Scavo in me stesso. L’interpretazione deve in qualche modo uscire da me. Non sono l’attore trasformista, come ad esempio lo straordinario Gian Maria Volontè. Io cerco in Haber. Ed è guardando dentro di me che ho capito quale fosse la strada giusta: io sono Zeno perché Zeno è in ognuno di noi. Sul palco quindi ho iniziato a lavorare su me stesso, a parlare di quello che sono sapendo così di parlare un po’ di tutti. Con alcune cose chiaramente fuori canone. È da quando ho vent’anni che sono contro le regole, la dizione perfetta, il lavoro sul diaframma”.
I registi ne erano felici?
“Ricordo Squarzina nel Rosa Luxemburg. Dovevo pronunciare la battuta “Ti voglio bene” e mi fece presente che la mia dizione delle vocali non era corretta. Lo ascoltai con attenzione e poi lo salutai, avviandomi verso l’uscita. Luigi iniziò a urlare “Fermatelo, fermatelo!””.
La vocale chiusa era diventata secondaria...
“Ma perché sono comunque uno che si mette a nudo e crede nel valore di essere veri, risultare credibili. In un percorso non netto in cui mi sono anche divertito. Come in questo caso. Dove la scrittura raggiunge sintesi meravigliosa e mi permette un dialogo speciale con il pubblico. Che poi è un po’ come fare l’amore. Specie a teatro, dove posso essere me stesso dall’inizio alla fine, cercare un senso e non essere preso e tagliuzzato come al cinema”.
Il teatro è il suo grande amore?
“Parliamoci chiaro: mi ha salvato la vita. Ed è la vita. Per il resto campo, faccio cose. Ma di base non vedo l’ora di tornare sul palco. Figurarsi per interpretare uno come Zeno. Che mente e che tradisce sapendo di tradire, è strategico ma generoso, spudorato. Uno che chiede a tutte e tre le sorelle di sposarlo, come se la cosa importante fosse che qualcuno se lo pigliasse”.
Il talento?
“Quello è un dono. O ce l’hai o niente, non lo puoi costruire in accademia. E forse proprio per quello ho avuto così tanto, nonostante un carattere come il mio. Sempre durante Rosa Luxemburg, dovevo a un certo punto rimanere in silenzio mentre una collega faceva il suo monologo. Lea Massari era in platea e mi disse che in quel momento non riusciva a staccarmi gli occhi di dosso. È bello sentirselo dire. Credo sia una questione di carisma, di energia”.
Un predestinato?
“Mi sa di sì. Altrimenti forse avrei fatto il missionario. Ma fin da piccolo volevo essere al centro dell’attenzione”.
Meglio sul palco allora. Il momento più bello?
“Quando ho fatto l’Arlecchino. Me l’aveva proposto l’Arena del Sole nel 1995. Mi sembrava una cosa impensabile, apparteneva a Strehler. Mi chiusi in bagno a pensarci, guardandomi allo specchio, sudando. Dissi poi che l’avrei fatto ma senza mascherina e senza il costume a rombi. A Nanni Garella andava bene e fu bello, senza frizzi e senza lazzi, un lavoro sulla fame vera, sulla disoccupazione, sul sesso. Un giornale parlando dell’Arlecchino mi mise a fianco di Moretti e di Soleri, una grande soddisfazione”.
Un suo pregio.
“La generosità, perché la passione non so se rientra fra i pregi. Ma ho anche avuto tantissimo dalla vita, non so nemmeno chi devo ringraziare”.