Milano, 28 gennaio 2025 – Dodici spettacoli, dieci sold-out. Gli Incognito tornano al Blue Note, come ormai d’abitudine, all’insegna del tutto esaurito. Col mezzo secolo di musica che si porta sulle spalle, Jean- Paul “Bluey” Maunick continua far buon viso alla fortuna e stasera vara, con un doppio set (alle 20.30 e alle 23) quella “residency” che lo domicilia nel club di via Borsieri fino a domenica prossima. Per riannodare i fili di un’avventura dell’acid jazz avviata nel 1981 e deflagrata in tutte le radio una decina di anni dopo, grazie alla versione riveduta e corretta della “Don’t you worry about a thing” di Stevie Wonder. Innumerevoli le formazioni avvicendatesi negli anni attorno ad un unico elemento catalizzante. Lui.
Nell’81, quando uscì l’album “Jazz funk”, avrebbe mai immaginato che 44 anni dopo sarebbe stato ancora in tour?
“Beh, questo è sempre stato il mio piano. Il desiderio di viaggiare e vedere il mondo era pari a quello di fare musica. Ci sono voluti quasi dieci anni perché il circo musicale itinerante iniziasse davvero”.
Il segreto di questa longevità sta anche nel fatto che siete un collettivo?
“Già. Il fatto di poter contare su una squadra così composta e talentuosa ci ha permesso di fare svariate tournée e rimanere fedeli all’etica degli Incognito. D’altronde la musica è la mia vita, anche se il mio primo amore è stato viaggiare. Da bambino sull’isola di Mauritius, da cui provengo, vedevo scomparire le navi sul filo dell’orizzonte chiedendomi dove andassero. Poi nel giardino di mio nonno ascoltavo le storie dei marinai di passaggio e le trovavo incredibili, la passione per i viaggi è nata allora. Poi ho scoperto la musica e ho iniziato a farlo pure in altro modo”.
Incognito è il suo progetto di riferimento, ma attorno ce ne sono diversi altri.
“Perché la mente creativa non sta ferma e l’anima creativa ha bisogno di esprimersi. Incognito è la casa madre, ma ho pure un’unità più piccola e più strumentale, i Citrus Sun, che hanno pubblicato lo scorso anno il loro quinto album in studio. Un disco che si apre con quattro cover classiche: “Mister Mellow” di Maynard Ferguson, “Honey” di Erykah Badu, “Mystic Brew” di Ronnie Foster e “Down for the third time” di Bobby Caldwell, più altre sei nuove composizioni. La confraternita jazz funk ha fatto salti di gioia. Ma sono impegnato pure in Str4ta, progetto britfunk in collaborazione con Gilles Peterson, che finora ha pubblicato un paio di album”.
Poi ci sono i dischi solisti di Bluey.
“Ne ho realizzati tre: “Leap of faith“ nel 2013, “Life between the notes“ nel 2015 e “Tinted sky“ nel 2020. Ho iniziato il mio quarto album che spero di completare entro la fine dell’anno”.
Cos’è rimasto della Londra che aveva trovato all’età di nove-dieci anni, appena arrivato in Inghilterra dalle Mauritius?
“È ancora una città multiculturale frenetica e vivace, ma ci sono vantaggi e svantaggi... La cosa positiva è che, come sempre, c’è un’entusiasmante scena artistica e musicale che è sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi altra città al mondo. L’aspetto negativo è che il tasso di criminalità giovanile è in crescita. Soprattutto furti di strada e crimini più allarmanti con coltelli. Nel complesso la trovo ancora un potente hub creativo a cui mi piace tornare. Gli aspetti positivi superano quelli negativi, ma per quanto tempo non lo so”.
Quali sono i suoi legami col mondo del jazz italiano?
“Molti sono stati influenti e fonte di ispirazione nella mia musica e nella mia produzione. Tra questi Pino Daniele, il Perigeo, la Premiata Forneria Marconi, Toni Esposito, Ennio Morricone, Stelvio Cipriani, Vince Tempera, Alessandro Alessandroni, Piero Umiliani, Max Rocci e Franco Micalizzi. Ho avuto la fortuna di aver collaborato e collaborare ancora con alcuni incredibili musicisti e cantanti quali Mario Biondi, Roberta Gentile, Enrico Rava, Stefano Bollani, la band 3D”.