Milano – Non è certo un lavoro facile. Mette alla prova corpo e spirito. Perché a furia di entrare nella pelle di qualcun altro, si rischia di perdere il contatto con la propria. Cosa per fortuna tutta da ridere quando si parla di Dario Ballantini. Che domani sera arriva al Teatro Manzoni con “Lo spettacolo di Ballantini. Conseguenze di 40 anni nei panni di altri“. Con lui sul palco la fisarmonica di Marcello Fiorini. Oltre a una decina delle più celebri imitazioni dello storico inviato di Striscia: da Lucio Dalla a Gino Paoli, da Ray Charles a Vasco Rossi o Zucchero. Senza parlare di Valentino, ovviamente.
Ballantini, quali sono state quindi queste conseguenze?
“La prima è che non so come vestirmi, a furia di indossare sempre i panni di qualcun altro, quando devo andare in giro per i fatti miei scelgo un po’ a caso. Altre cose sono più bizzarre. Quando mi trasformavo in Michela Brambilla, non dico che sono stato molestato ma la gente si domandava davvero se fossi un travestito. Mentre gli aneddoti su Valentino sono infiniti”.
Il suo personaggio feticcio.
“Con lui ho fatto il boom, era il 1998. E in quell’anno sono stato Valentino per 300 giorni, una cosa assurda. Una volta ho perfino preso l’aereo truccato, non c’erano ancora state le Torri Gemelle e nessuno si è fatto problemi”.
Fino ad allora con Striscia non aveva funzionato.
“Non riuscivo a bucare lo schermo. Era un problema e iniziavo a pensare di proseguire come truccatore. Ricci mi riconosceva un talento da sgrezzare, ma i personaggi in studio non piacevano, dal grammelot di Dario Fo al primo Ignazio La Russa, fra le fiamme”.
Come saltò fuori Valentino?
“Un giorno feci una smorfia in riunione e un autore mi disse che assomigliavo allo stilista. Provai a lavorarci ma volevano che andassi in strada a vedere cosa succedeva. All’epoca non era come oggi, solo Chiambretti aveva fatto il postino in esterna, nessuno ci aveva mai provato con un’imitazione, improvvisando con la telecamerina”.
E invece?
“Un successo pazzesco. Fui accolto dietro le quinte delle sfilate, tutti si prestavano al gioco. E per me cambiò il mondo. Divenni un fenomeno di costume, gente che fino al giorno prima mi snobbava mi salutava calorosamente”.
Nascono sempre da un dettaglio le sue imitazioni?
“Dal capire se può esserci una somiglianza. Traccio un progetto di disegno sul volto, mi confronto con i truccatori sui lineamenti, studio i filmati. Ma ci vuole anche una dote di natura”.
E se qualcuno la volesse imitare da cosa dovrebbe partire?
“Io sfuggo al controllo. Basta che mi taglio i capelli e fanno fatica a riconoscermi perfino i parenti. Sono Fantomas”.
Quando si è accorto del dono?
“Già a quattro anni mi ci divertivo. Ero appassionato di Noschese, riuscii anche a vederlo. E poi avevo subito fatto il teatro vernacolare qui a Livorno, che è un po’ come i Legnanesi in Lombardia, ti ritrovi sul palco vestito da donna e passa la paura. Al liceo lavoravo con un amico, eravamo un duo di cabaret e di imitazioni. Un nostro compagno ci iscrisse a una trasmissione di Corrado e fummo presi, a 18 anni. Dopo una stagione il mio collega smise e io non sapevo bene cosa fare, senza agganci e senza manager”.
Iniziò la gavetta.
“Sì, facevo spettacolo ovunque: nei piano bar, alle feste dell’Unità, nei night. Sempre con questa voglia indomita”.
Questa volta sul palco si concentra sulla musica.
“Mi sembrava la scelta giusta per lo show, in tv c’è quasi solo satira politica. Ho poi questa passione per Dalla e Gino Paoli, una delle mie imitazioni preferite, perfino il figlio si confuse. Ci sono i personaggi, due lunghi monologhi, i filmati di Striscia in cui parlo con le persone che sto imitando, il finale con Valentino, visto che siamo pur sempre nella città della moda. Farò anche vedere come mi trasformo”.
Ballantini allo specchio?
“Esattamente, con il riflesso girato verso il pubblico. In due minuti mi vesto e mi trucco, una cosa un po’ stressante ma credo sia curiosa da osservare. Un compromesso, rispetto alle quattro ore di preparazione che ci vogliono in televisione per un personaggio ad esempio come Vannacci”.
Quanto si sente livornese? “Nella vita privata lo sono in maniera anomala. Mentre nel lavoro ritrovo quella sfrontatezza un po’ pirata, la comicità, il coraggio”.
La pittura è stata un piano B?
“No, più che altro un piano parallelo, che sono riuscito a tenere distinto negli anni in cui non c’era molta tv. All’epoca ero il pittore Ballantini, mentre sul palco diventavo Dario l’imitatore”.
Cosa consiglierebbe a chi inizia?
“Di circondarsi di persone sincere e spietate. I signorsì non servono, il talento va verificato da altri. Di lavorare sull’autocritica, studiare chi ci ha preceduto. E poi a quel punto sviluppare costanza e perfezionismo. Ma ognuno fa storia a sé”.