
Il cantautore Dente, all’anagrafe Giuseppe Peveri, 49 anni
Milano – Canzoni stonate. No, sudate. O, almeno, così la pensa Dente parlando della fatica nell’ ‘espellere’ in meno di due settimane i dieci i brani che impreziosiscono il nuovo album “Santa tenerezza” rendendo così l’urgenza una loro cifra distintiva. La sintesi artistica di un suo periodo della vita “non particolarmente felice” che gli ha permesso, però, di rendere la propria fragilità un contenitore di suoni, suggestioni, ricordi virati dal tempo, come spiega parlando di questa sua nuova fatica “autobiografica al 102%” eccetto quella “La città ci manda a letto” condivisa con Emma Nolde che arriva a fine ascolto. “Appartengo alla categoria di quelli che la notte ‘chiudono’ i locali, incollati alla sedia finché non li buttano fuori” racconta il cantautore fidentino trapiantato da un ventennio a Milano, all’anagrafe Giuseppe Peveri, classe ’76. “Così, una sera, mentre il personale della Santeria chiedeva garbatamente agli ultimi avventori di sloggiare, ho commentato che questa città ci manda a letto. La Nolde, lì a due passi, s’è voltata e m’ha detto: bella idea, dobbiamo scriverci sopra una canzone. E così è stato”. Ma la città affiora in diverse canzoni, a cominciare da quella “Corso Buenos Aires” in cui Dente-Peveri racconta “un brutto incontro” sentimentale fatto proprio lì passeggiando. “D’altronde tutti quelli che hanno lavorato al disco stanno a Milano”.
A cominciare dal produttore Federico Nardelli.
“Durante una vacanza in Grecia, avevo pensato di registrare questo nuovo album sull’isola di Hydra, ma quando è arrivato il preziario dell’unico studio di registrazione presente lì, ho pensato che sarebbe stato più saggio fare tutto in quelli di Nardelli in via Mecenate”.
Che progetto è “Santa tenerezza”?
“Lo reputo un disco terapeutico, come fu al tempo ‘L’amore non è bello’. Il titolo ‘Santa tenerezza’ affiora dal testo di una canzone, ‘Non ci pensiamo più’, e me l’ha suggerito lo stesso Nardelli dicendo che l’avrebbe visto bene per un documentario sulla mia storia. Alla fine, niente film, ma quel nome è rimasto”.
Di cosa racconta?
“Queste canzoni, composte a bassa voce sul pianoforte di casa perché lavoro di notte e non mi sembra il caso di svegliare tutto il condominio, parlano di perdita, di assenza, di ore piccole e notti insonni, ma anche di futuro e di sogni. Ecco perché sulla copertina ho voluto mettere una donna immaginifica e immaginata dentro ad una nuvola che è fascino, vapore, sospensione tra terra e cielo”.
Il repertorio segue un suo percorso.
“Sì, perché, nei concerti come nei dischi, penso di essere cintura nera di scalette. Capace d’individuare sempre quella giusta. Il primo pezzo deve essere il manifesto dell’album, mentre l’ultimo, vedi il caso del duetto con la Nolde, scantonare anche altrove. Ma la canzone numero 5 deve essere rigorosamente la più bella di tutte. Lezione che ho imparato da un fortunato album di Edie Brickell & New Bohemians e mi è sempre tornata utile”.
Tentato da Sanremo?
“Quest’anno no. In passato, però, il mio pezzo l’ho mandato, anche se poi non è andata. L’edizione 2025 ha mostrato che tra la canzone d’autore e il Festival non c’è più il divario di una volta. Lucio Corsi, ad esempio, è un alieno interessante e la sua è una bella canzone. Si fosse presentato cinque anni fa, però, gli sarebbe andata diversamente, perché sono i tempi che decidono. Speriamo, quindi, che, quando ci riproverò, il momento sia giusto anche per me”.