
Emma Dante
Milano - Da 11 anni a questa parte marzo è il mese del WeWorld Festival e nel 2021 non si farà eccezione, non del tutto: l’appuntamento è per domani, 4 marzo, e dopodomani, 5 marzo, sulla pagina Facebook di WeWorld, organizzazione che da 50 anni si batte per i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo. Un’edizione in streaming. Ma la speranza è che il festival possa essere riproposto dal vivo a maggio, negli spazi di Base Milano. Ospite dell’edizione on line è la regista, drammaturga ed attrice teatrale Emma Dante, che domani alle 17 affronterà gli stereotipi del maschile e del femminile, tema del suo libro: "E tutte vissero felici e contente" (La Nave di Teseo). Emma Dante: perché ha ritenuto che le fiabe potessero essere il posto giusto per smontare gli stereotipi del maschile e del femminile? "Perché le fiabe sono il primo luogo in cui i bambini, quindi i futuri adulti, vengono a contatto con una morale. Tutto comincia da lì. Sono il luogo più antico del mondo dal punto di vista della costruzione della morale e sono pieni di cliché, talvolta anche di violenza. Ho ritenuto si potesse partire proprio dalle fiabe per provare a dare ai bambini, ai futuri adulti, altri codici. Una volta smontata la morale ufficiale, la fiaba resta, il giocattolo non si rompe". Qual è dunque la morale delle sue fiabe? "Ce ne sono diverse ma una di queste è che le bambine possono attraversare il bosco anche da sole, senza dover essere accompagnate dal principe azzurro. Perché l’ombra deve sempre essere femmina? La mia Cappuccetto Rosso è una ragazzina bulimica, grassottella, che alla fine si mangia il lupo. Un altro tema è quello della violenza: non bisogna dimenticarsi di chi ci ha fatto del male ma bisogna perseguire la giustizia non la vendetta e non l’odio". Donne e violenza: in pandemia sono aumentati i casi di abusi tra le mura domestiche e più convivenze sono esplose. Una conferma di quella insalubrità dell’istituzione-famiglia che lei ha raccontato in diversi spettacoli? "La famiglia è sia un posto dove si può trovare riparo sia uno scannatoio nel quale vengono a galla insoddisfazione, intolleranza, dinamiche cruente. E chi ci rimette sono i più deboli: donne e bambini. La pandemia ha acuito un problema pre-esistente". La pandemia cambierà il teatro? "Qualcosa cambierà nei contenuti. L’artista non può fare a meno di ricordare e di rielaborare un anno di lutti e di silenzi nelle nostre città, non può fare a meno di fare i conti con quanto è accaduto. Io non farò mai uno spettacolo che parli della pandemia ma so che porterò dentro di me e dentro i miei prossimi spettacoli il dolore e il silenzio provocati dalla pandemia. So che nei miei spettacoli ci sarà sicuramente più dolore". E più silenzio, sebbene i suoi spettacoli siano ritmo puro? "È vero ma io il silenzio lo cerco sempre. Il ritmo è fatto di silenzi. Nei miei spettacoli ad un certo punto tolgo la musica e lascio che si sentano i silenzi della vita: lo scricchiolio del palco, il respiro degli attori, il rumore di una sedia trascinata altrove". Ha già un’idea del suo primo spettacolo post-Covid? "Spero di mettere in scena lo spettacolo che avrebbe dovuto debuttare l’estate scorsa al Festival di Spoleto e poi al Festival d’Avignone: “Pupo di zucchero“. In questo spettacolo c’è già una presenza di quello che stiamo vivendo in pandemia: la morte. Il protagonista è un anziano che vive da solo e in occasione del 2 Novembre cucina un pupo di zucchero per i suoi parenti defunti. Una festa di morte in una casa piena di ricordi". Lo streaming, l’on-line, può essere una risorsa per il teatro? "No. Mai. Che muoia, piuttosto. On line non è teatro. Il teatro è presenza, vicinanza, riduzione delle distanze, il teatro si fa insieme, è catarsi, è un tempio laico dove avviene una messa laica. Non mi va giù che stiano tenendo chiusi i teatri, con le giuste precauzioni si poteva riaprire. Questo è il risultato di anni di cattiva politica culturale: si privilegia l’“Evento“, non il lavoro fatto con progettualità". Come ha capito che nella vita avrebbe voluto essere una Cappuccetto Rosso che il lupo se lo mangia? "Mia madre per tutta la vita è stata dietro alla famiglia. È morta a 59 anni e ancora oggi non so quale fosse il suo sogno e quale il suo talento. Ma un giorno mi ha ha portato in stazione e mi ha messo su un treno per Roma dicendomi che dovevo seguire la mia vocazione. Grazie a lei ho fatto il provino all’Accademia Silvio D’Amico e ho iniziato il mio percorso nel teatro. Mio padre per me aveva immaginato tutt’altra strada. Io stessa avvertivo il mondo come un problema, ero indolente, un vizio tipico di noi siciliani, e avevo voglia di nascondermi. È stata lei a darmi la spinta più importante, come la spinta che si dà quando si partorisce. Mi ha dato la vita una seconda volta: le madri questo fanno".