DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Fabio Genovesi: “Mamma, nonne e zie. Magnifiche maestre di dolcezza e umiltà”

Nel suo ultimo lavoro lo scrittore racconta le donne fondamentali della sua vita: “Sono state capaci di ribaltare i tavoli. E far uscire i sogni che erano nei cassetti. Niente libri in casa, la vita l’ho imparata in barca e l’amore per le storie dai burattini”

Fabio Genovesi presenterà il suo romanzo “Mie magnifiche maestre“ oggi alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte

Fabio Genovesi presenterà il suo romanzo “Mie magnifiche maestre“ oggi alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte

Milano – Un uomo davanti al mare. Appoggiato alla sua bicicletta. Ce lo si immagina così Fabio Genovesi, narratore di storie e di gare ciclistiche, sempre in bilico fra la scrittura e la fuga in barca. Negli orizzonti di una Versilia parecchio distante da gazebo e flute di champagne. Ed é qui che prende vita l’album famigliare di “Mie magnifiche maestre“ (Mondadori), presentato oggi alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte. Lavoro intimo. Di pensieri alti e di toni bassi. Dove si fanno i conti con queste donne giganti. Capaci di ribaltare i tavoli. E di insegnare il valore del canto della cicala.

Genovesi, nel libro parla del passato per guardare al futuro.

“È così. Ma non è una cosa che ho scelto. Sono bravo a cogliere i doni che arrivano, non a scegliere. E nella settimana in cui ho compiuto 50 anni, sono venute a trovarmi in sogno le donne che mi hanno cresciuto: mia madre, le nonne, le zie e le zie acquisite. Un ricordo però privo di quella malinconia un po’ sterile. Le loro fotografie sono qualcosa di vivo”.

Un affascinante artificio letterario?

“No, no, è successo davvero! Siamo una famiglia che ha sempre creduto nei sogni, intesi come strumenti dalla libertà meravigliosa, capaci di raccontare dell’umano e non solo del nostro inconscio, come ci ha spinto a credere la psicanalisi. Visione che ha reso il sogno oggetto di continue autopsie per capire noi stessi, ovvero la cosa più noiosa dell’universo”.

Qual è l’insegnamento più prezioso?

“Di avere cura del canto della cicala. Un canto antico, che proviene da lontano, in cui ognuno porta la propria piccola, importantissima parte. È il rovesciamento della favola, considerando che la formica fa una vita orrenda, una briciola dopo l’altra, simbolo della nostra società contemporanea. Le mie maestre mi hanno quindi insegnato a cantare. Ma anche un altro paio di cose interessanti”.

Ci dica.

“La dolcezza e l’umiltà. Non siamo nulla ma siamo l’unica cosa che abbiamo. Dentro un mondo da affrontare con gentilezza, dote rara e rivoluzionaria, circondati come siamo da persone che vogliono eccellere”.

Effettivamente lei non sembra uno di quegli scrittori che alzano i gomiti per farsi spazio sotto canestro.

“Non è il mio. E devo dire che tanti libri possiedono splendidi scenari nascosti dalla presenza invadente del loro autore. Io non mi domando cosa le persone possano pensare di me. Ma se sono riuscito a farmi dimenticare”.

Bella l’immagine della tavola rovesciata.

“La felicità presuppone un rischio. Sempre. Tanti di noi sono insoddisfatti. Alcuni non reagiscono per necessità. Ma altri solo per il timore dell’incognito. Ribaltare il tavolo significa non accettare questo modo di intendere la vita. Far uscire i sogni dal cassetto, che lì dentro non servono a nulla”.

Come si è avvicinato alla scrittura?

“In casa mia non c’erano libri, la vita si imparava sulle barche. Ma ogni estate arrivavano in pineta le compagnie di burattini di Napoli e Salerno. Facevano tre repliche al giorno, io le guardavo tutte. E in quel momento sono entrato in contatto con le storie. Ho capito poi che anche i libri ne contenevano parecchie e che la scrittura poteva unire le mie due grandi passioni: le storie e la musica. Mondadori non lo deve sapere, ma questo lavoro lo farei anche gratis”.

Riferimenti?

“Guareschi, Collodi. La letteratura araba e quella sudamericana: García Márquez o Juan Rulfo, che in Messico è considerato un genio ma qui credo di conoscerlo solo io”.

L’autore di “Pedro Páramo“, anche grandissimo fotografo.

“Ecco, siamo in due. E poi tanta musica: sahariana, indiana, lo spiritual jazz, dove ognuno suona per i fatti suoi ma poi si compone una specie di armonia scalcagnata”.

Cosa consiglia durante la lettura?

““A Love Supreme“ di John Coltrane. Proviamo a pensare in grande”.

Il mare?

“È casa mia. Una madre. La cosa più vicina a Dio che conosca”.

Passiamo a una passione più terrena: la bicicletta.

“Gli uomini della mia famiglia non seguivano il calcio, sono cresciuto guardando il ciclismo. È stato un onore quando il Corriere mi ha chiesto di scrivere del Giro, rinnovando la tradizione dello scrittore che ne segue le giornate. Poi è arrivato l’invito dalla Rai di commentare le tappe in diretta e già solo viverle sulla linea d’arrivo è un’esperienza pazzesca”.

Lei racconta il Paese oltre alle gare.

“C’è chi mi dice che parlare del Colosseo per un minuto e mezzo è troppo. Gente che vorrebbe certi discorsi solo nei convegni. Un grosso errore. Sono queste le occasioni che permettono di far scattare scintille di curiosità in chi ascolta. Di far conoscere la nostra cultura, trasformando l’orgoglio per il nostro Paese in un sentimento più accogliente e consapevole”.