
Gaia De Laurentiis
MILANO – Primo piano sparato. Capello corto, biondissimo. Occhioni azzurri. Si presentava così Gaia De Laurentiis a Target, successo tv di metà anni 90. Difficile scordarsela. Da allora fiction (“Sei forte, maestro”), quattro figlioli, il teatro. Parecchio teatro. Martedì 29 aprile la si incrocia al Manzoni con “Una giornata qualunque” di Dario Fo e Franca Rame. Data secca. Per un progetto di Lorenzo Artissunch, che l’affianca in scena. Anche se alla fine si tratta del monologo di Giulia, donna abbandonata, a un passo dal suicidio. Vorrebbe farla finita. Solo che inizia a ricevere telefonate di sconosciute disperate: il suo numero è apparso su una rivista al posto di quello di una psichiatra. Tragicomico.
Gaia, com’è dunque la sua Giulia?
“È una donna grintosa, buffa, fragile. Con una certa tendenza al melodrammatico, un po’ drama queen. Vive un periodo di solitudine, che cerca di riempire con qualsiasi congegno elettronico. E nonostante sia un testo degli anni 80 (che in pratica portò in giro la sola Franca Rame), già si parla tantissimo di questo aspetto delle nostre vite, accennando perfino ad internet, definito l’“ammazza-solitudine“”.
Qui sono le telefonate però a salvarle la vita, come in quella pubblicità.
“Ma la cosa bella è che Giulia si rende conto attraverso le risate che la vita merita di essere vissuta. Perché l’empatia con le donne non passa solo dal dolore, è questa la chiave geniale del testo”.
Anche lei ha avuto voci-amiche nella carriera?
“Entro molto in contatto con le persone, non riesco a lavorare e poi ciao. Colleghi, tecnici, sarte: mi porto dietro un carrozzone di amici e amiche che hanno fatto la differenza, piccoli mattoncini su cui si sono costruite le cose”.
Primo mattoncino un certo Giorgio Strehler...
“Ci selezionarono a lungo, era il primo triennio della Scuola del Piccolo. Avevo 17 anni. Vederlo a Milano fu uno shock. Proponevo il monologo di Mirandolina vestita con una maglietta rossa, cosa per lui insopportabile: solo nero e bianco nelle prove. Tremavo come una foglia. Mi cacciò urlando che era ridicolo pensare di poter interpretare una donna vissuta, che sa come funziona la vita. Corsi a piangere sulla panchina davanti al teatro. Un piccione mi cagò in testa”.
Ma davvero?
“Giuro. Poi un’insegnante mi raggiunse fuori, dicendomi che il Maestro mi dava Ofelia. Tornai dopo un paio di giorni e lui ne fu entusiasta. Perché come era eccessivo nelle incazzature, lo era anche nelle lodi. Mentre mi guardava diceva alla commissione: “Ma vi rendete conto che grinta? Proprio lei, che non ha fatto teatro nemmeno dalle suore!””.
Si riconosce quella grinta?
“Sì, ma sai quanti ragazzi ce l’hanno e non combinano nulla? Ci vuole sempre un’imponente parte di c.... Io avevo deciso di provarci. Altrimenti mi aspettava Medicina”.
I suoi la supportavano?
“Tantissimo. Dicevano che andava bene fare l’attrice, c’erano già così tanti medici a spasso… Però riuscivano anche a farmi sentire libera. A Milano non fu facile, dormivo in un residence, li chiamavo disperata coi gettoni, mi dicevano di vivere l’esperienza ma se era troppo dura di lasciar perdere, avrei trovato la mia strada. Ebbero un problema solo con Target. Guardavano con sospetto il mondo della tv, fosse solo per la presenza di Berlusconi, visto che i miei non erano proprio di quella parte lì. Ma piano piano cambiarono idea”.
Nel frattempo il teatro le lanciò una scomunica?
“Qualcosa del genere. Mi sentii rifiutata, accoltellata alle spalle. Negli anni ’90 non era come adesso dove sono capaci di prendere un’influencer per interpretare la commedia. Se facevi tv eri guardata con sospetto e io dovevo tornare a dimostrare di non essere brava solo a fare i sorrisi davanti alla telecamera. E certo non si mettevano lì a costruire le tournée sugli impegni televisivi”.
Strehler cosa disse?
“Per lui avevo interpretato Margherità nel Faust. Una volta diplomata, mi chiamò lo Stabile di Genova e la tv per una soap. Non sapevo che fare e così telefonai al Piccolo. Rispose Rosanna Purchia, mi disse che dovevo chiamare “il Maestro“ in campagna ma di non dire che andavo a Genova, perché si sarebbe sentito tradito e mi avrebbe “mandato i cecchini a casa“. Meglio la tv, da Strehler definita con feroce sintesi “una stronzata“”.
Rimpianti?
“Ma no, anzi. Feci bene. Lui stesso ci ripeteva che dovevamo vivere, sbagliare, innamorarci, fare figlioli, separarci, se no non sapevamo cosa raccontare sul palco. Rifiutai perfino la ripresa del Faust. Però ti assicuro che è stato meglio così. Bisogna uccidere il padre. Con me si diplomarono Sonia Bergamasco e Paolo Calabresi. Ma non sai quanti altri ho visto arenarsi sotto il suo santino”.
Tutte le amiche negli anni ’90 volevano assomigliarle.
“Fu molto bello. Meno male però che non c’erano i social. Altrimenti non so se sarei sopravvissuta! All’epoca la visibilità era più concreta. E forse legata anche al saper fare qualcosa”.