DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Intervista a Giacomo Poretti: “L’arte deve farsi domande. Vi racconto il mio ultimo spettacolo”

L’attore del celebre trio Aldo, Giovanni e Giacomo a teatro Oscar in via Lattanzio con “La Fregatura di avere un’anima”

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Giacomo Poretti racconta l'ultimo spettacolo

La risata è sempre lì: dietro l’angolo. Ma è una bella sfida la direzione in cui oggi Giacomo Poretti chiede di guardare: verso l’alto. O forse sarebbe meglio dire dentro sé stessi, senza intimorirsi di fronte alle domande più complesse. Come racconta in «La fregatura di avere un’anima», nuova produzione de Gli Incamminati, domani in anteprima nazionale al Teatro Oscar in via Lattanzio, per la regia di Andrea Chiodi. Dove la nascita di un bambino diviene spunto (comico, ma non solo) per interrogarsi sugli aspetti più spirituali. E che ognuno si dia le proprie risposte. Poretti, anima è parola fuori moda. «È così, assolutamente. Rischia addirittura di essere dimenticata. Riflessione che mi ha spinto a creare lo spettacolo, idea che avevo da tanto tempo. Credo che il discorso sia abbastanza generale, si percepisce un senso di emergenza che coinvolge la sfera spirituale e la nostra capacità di porci certe domande». Sul palco? «Il gioco drammaturgico nasce da una provocazione. Una giovane coppia ha un figlio e il prete li viene a salutare, dicendo loro che adesso hanno fatto un corpo, ma devono ancora impegnarsi a fare l’anima. La prima reazione dei genitori ovviamente è: cosa stai dicendo? Sembra infatti un discorso del 1950, quasi fuori luogo. Mentre sei lì impegnato a crescere tuo figlio, cercando di capire come supportarlo per diventare influencer, architetto, o Pallone d’Oro». Invece? «E invece la provocazione rimane lì, non se ne va, lavora come un grimaldello. Perché ti accorgi che di fronte al dubbio, l’uomo moderno fatica a trovare le risposte, perfino nella scienza. Pensa solo ai sentimenti. Se parli d’amore, a livello fisiologico ti diranno che puoi avere le palpitazioni, un rossore alle guance, lo stomaco chiuso. Ma questo mi succede anche di fronte a Shining. Non ci sono esami che ti spiegano certe cose». Una questione di fede? «No, non c’entra. E a me non interessa se uno va in chiesa o meno, sospendo qualsiasi giudizio. C’è però bisogno di domandarsi da dove veniamo, che ci facciamo qui, perché viviamo in un certo modo. Territorio che l’arte cerca da sempre di indagare. Ed è una tensione spirituale appartenuta anche a grandi autori non credenti, da Cesare Pavese a Mark Twain. La parola anima rappresenta un po’ tutto questo». Come la vive da genitore? «Con inquietudine e senza porre obblighi. Ognuno ha il suo percorso di libertà, le esperienze sono fondamentali. L’unica cosa è che ho mandato mio figlio in oratorio, mi sembra che gli piaccia. A me aveva fatto bene all’epoca, anche se poi l’avevo ripudiato». Nella sua formazione ci sono la fabbrica, il lavoro da infermiere, la contestazione politica. «Sono cresciuto nella provincia milanese, ho respirato l’atmosfera di cui stiamo parlando. Ma poi da adolescente ho mollato tutto e il mio desiderio di cambiare il mondo ha trovato risposta nella militanza politica d’ultrasinistra. Fino al rapimento Moro, per me ha segnato una demarcazione. Già non credevo nell’uso della violenza per risolvere i problemi, non era una cosa che mi apparteneva. E così mi sono allontanato da quel mondo». Quando è inciampato nell’anima? «A quarant’anni, nel momento in cui ho conosciuto mia moglie Daniela Cristofori e abbiamo iniziato un percorso insieme». È un qualcosa che non ci si immagina troppo nel mondo dello spettacolo. «Guarda, se proprio non entri in un seminario, i settori sono un po’ tutti uguali. Nello spettacolo c’è un clamore diverso, ma l’ambiente non è peggio di altri». Con Aldo e Giovanni il clamore era assordante. «Tuttora uscire di casa non è facile. Siamo stati fortunatissimi, anche nel volerci bene. Costruendo qualcosa che ha poi permesso ad ognuno di noi di fare un proprio percorso autonomo, senza mollarsi. Che per me significa oggi il lavoro qui all’Oscar, al Teatro degli Angeli, al Centro San Fedele». Lo sa però che per tanti lei rimane Tafazzi? «Lui è stato una folgorazione pazzesca, generando un fiume di interpretazioni a cui noi non avevamo nemmeno pensato. Mi ha sconvolto la vita, gli voglio bene. Ho perfino immaginato un dialogo fra me e lui nel libro “Un allegro sconcerto“. Mi sono divertito tanto. Rido ogni volta che penso a quando facevo il pirla che disturbava i bulgari…», C’è qualcosa di cui va più orgoglioso? «Mi piace l’amore che continuo a respirare rispetto al percorso fatto con Aldo e Giovanni. Una popolarità bella, sana. Che mi ha permesso di conoscere per altro un sacco di persone, di vivere incontri che non avrei mai pensato. E in questo senso io sono una persona molto curiosa. Ma sono fiero soprattutto di questi due teatri che abbiamo aperto. È un lavoro lungo, difficile. Ma che parte dalla convinzione che la cultura sia la vera linfa di una società. Quello che ci permette di non deragliare».