DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Il salotto letterario di Gioele Dix, si riparte con le grandi scrittrici: “Emozionanti, geniali e spudorate”

Stasera al Franco Parenti ritorna “Giovedix“: le opere e le loro autrici raccontate sul palco dal grande attore

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Giole Dix

Gioele Dix, ha deciso di rispolverare i suoi amati Giovedix.

«Sì, li avevo già organizzati una decina di anni fa, andando avanti per un po’. Ora li riprendo, anche perché forse c’è la possibilità di un progetto più ampio».

Cos’ha in cantiere?

«Si parla di una serie di podcast. Ho già fatto audiolibri, lavoro faticoso, dove senti una forte responsabilità nel donare voce a un intero libro, come mi è capitato con Buzzati o Ammaniti. Qui il respiro è diverso, ci sono opere di cui leggo degli stralci ma che sono prima di tutto spunti per aprire il discorso a temi più complessi e al dialogo con le arti».

Per questo ha scelto un filone così preciso?

«Esattamente. Avevo bisogno di un approccio in qualche modo monografico, seriale. Che in questo caso è la scrittura femminile. Prima condividevo davvero quello che avevo sul comodino, qualcosa che mi aveva colpito. Ora lo spirito è lo stesso ma un po’ più ragionato, sempre sviluppando suggestioni ed emozioni».

Parte con Nora Ephron.

«Grande sceneggiatrice. Lei ad esempio è l’occasione per spostarmi verso il cinema o indagare la bellezza dei dialoghi. La sua scrittura è piena di ironia ma anche acutissima nel raccontare sfumature difficili come l’invecchiare, la morte per dirla come va detta… Pensi a quella meravigliosa battuta in Harry ti presento Sally: ’Quando compro un nuovo libro, come prima cosa leggo l’ultima pagina. Così, nel caso dovessi morire prima di completarlo, saprò come finisce la storia’. Paradosso geniale».

A quale autrice è particolarmente legato?

«Amo molto Almudena Grandes, famosa per ’Le età di Lulù’ ma di cui io porto ’Modelli di donna’. Lei ha questo desiderio esplosivo, questa forza, una certa spudoratezza che si unisce alla rara capacità di raccontare lo sguardo su sé stesse delle donne, come nel racconto di una traduttrice sovrappeso che si ritrova a lavorare con una modella magrissima. Molto potente».

Alice Munro?

«La leggevo già prima del Nobel, maestra del racconto breve, un’arte speciale. Come Buzzati, in parte Calvino, ovviamente Carver, forse il mio preferito. Con quella scrittura che inizia in un punto qualsiasi della vicenda e termina quando gli pare. La condivisione momentanea di un flusso, con la casualità intrinseca delle nostre vite».

Che tipo di lettore è?

«Da piccole librerie, quelle sofferenti, dove ancora ti danno consigli. Sono cresciuto così, in una casa dove i libri erano la parte più importante dell’arredamento senza esserlo. Perché poi c’è pure gente che li organizza per colori sugli scaffali, a seconda di come stanno cromaticamente. Col tempo ho imparato a leggere rapidamente e a lasciar perdere quando qualcosa non mi convince. Deve essere una questione di età, non posso più sprecare le giornate».

Nessun senso di colpa?

«No, quelli li aveva però mia madre, che terminava qualunque cosa anche se le provocava sofferenza. Per il resto sono onnivoro ma con gusti precisi. Ho una predilizione per gli americani, che sembrano sempre autolegittimarsi, senza dare troppe spiegazioni. Ma amo molto anche la poesia e studio la psicanalisi, come già all’università. Mi sono provato perfino con Lacan».

E il teatro?

«Sto portando in giro ’Ma per fortuna che c’era il Gaber’, con alcuni testi inediti. Anche se canto, rimane un progetto molto vicino alla letteratura, visto che il Signor G scriveva davvero quello che pensava. Insieme a Luporini, ovviamente. Che è venuto ultranovantenne a vedere lo spettacolo a Viareggio e mi ha detto che non si ricordava nemmeno di aver scritto quelle cose ma erano piuttosto belle. Mi ha fatto sorridere, un momento speciale».