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Prima della Scala: Giovanna d'Arco cantata da Villon, il poeta nato il giorno del suo rogo

Nell’Enrico VI di Shakespeare, la Pulzella è una “strega malefica” di ELVIO GIUDICI

Un momento dell’opera che debutta domani al Piermarini (credit Brescia-Amisano / Teatro alla Scala)

Milano, 6 dicembre 2015 - Benché molto meno presente sui palcoscenici rispetto ad altre figure mitiche della storia e del Vecchio Testamento, la letteratura s’impossessa di Giovanna d’Arco si può dire all’indomani stesso del rogo del 30 maggio 1431 sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen: a cominciare da una delle più belle ballate del primo “poeta maledetto” di Francia, François Villon, che per uno di quegli strani casi della storia nacque proprio quello stesso giorno. Lavori elogiativi ma anche denigratori. Come il poema tragicomico di Voltaire che la dipingeva serva mezza matta in lotta molto più per la propria emancipazione che per la liberazione della Francia. O come la Pulzella introdotta nella prima parte di Enrico VI da Shakespeare, che nel raccontare l’anglica “Guerra delle Due Rose” l’inserisce nel più vasto contesto della Guerra dei Cent’anni (guerra dapprima feudale tra i feudi devoti al re di Francia contro quelli obbedienti agli inglesi, e via via divenuta scontro tra Inghilterra desiderosa d’espandersi nel Continente, e Francia che nello scoprire l’orgoglio di farsi una e indipendente l’incarnava appunto nella Pulzella sostenitrice di Carlo VII di Valois) e sposa ovviamente il punto di vista inglese chiamandola “strega malefica e spaventosa incantatrice”.

Ogni precedente lavoro passa tuttavia in secondo piano allorché nel 1801 Friedrich Schiller pubblica la sua Die Jungfrau von Orléans. La grande orazione che semplifica la storia rendendo “il palcoscenico un istituto morale” (come scrisse Schiller stesso in un suo saggio sul teatro); che della storia tralascia la lucida obiettività per esaltare invece i suoi protagonisti, quantunque la marcata impostazione ideologica d’uno dei maggiori retori della libertà politico-sociale che il teatro abbia conosciuto, ne sacrifichi spesso coerenza psicologica e quindi verità umana: tutto questo complessa e contraddittoria questione trova nella vicenda della Pulzella ampio materiale. Che giunse in Italia con una prima traduzione approssimativa, in prosa, di Pompeo Ferrario; e una seconda, di Andrea Maffei, in versi e senza confronto migliore. Come inevitabile conseguenza, il teatro musicale italiano ne trasse ben presto ispirazione.

Cominciò nel ’21 alla Scala con un “ballo storico” di Salvatore Viganò: genere frequentatissimo, in un’epoca che sulla scia della letteratura inglese romantica aveva fatto del romanzo storico - Giambattista Bazzoni, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Massimo d’Azeglio, Cesare Cantù, Luigi Capranica - in pratica l’unico genere letterario diverso dalla poesia di stampo accademico. Subito dopo, il melodramma. Nicola Vaccaj a Venezia nel 1827, su libretto di Gaetano Rossi (che tuttavia s’ispira non a Schiller bensì a una tragedia francese di Loeillard d’Avrigny). Giovanni Pacini alla Scala nel 1830, su libretto di Gaetano Barbieri che sfrondava il romanticismo schilleriano eliminandone ogni connotato soprannaturale e ripristinando la morte sul rogo anziché in battaglia. Meteore senza futuro entrambe, al pari di quelle dei diversi compositori (meteoriti anch’essi: ben sette, tra cui Konradin Kreutzer, Michele Carafa, Michael William Balfe) che in varie guise avevano musicato la vicenda di Giovanna.

Solera, nell’approntare il libretto per Verdi, dichiara la propria indipendenza da Schiller ma ciononostante ne assume diversi assi portanti: l’elemento soprannaturale (cori di demoni e angeli), d’altronde di grandissima voga dopo l’apparizione del Robert le diable di Meyerbeer che nel 1831 aveva terremotato il panorama lirico europeo; l’antitesi tra inclinazione personale e rispetto delle regole, rappresentato dalla figura del padre che in nome di esse tradisce il proprio re; il gusto per la sontuosa scenografia, infine, reso possibile con la grande scena della cattedrale in omaggio alla moda sempre più imperante del Grand-Opéra. Lasciando da parte la grande Cantata “Giovanna d’Arco” composta da Rossini per la seconda moglie Olympie (capolavoro musicale sommo, che alcuni vorrebbero considerare una sorta di teatro stenografato ma secondo me è piuttosto fotografia epocale di salotto letterario), l’unico lavoro che nel teatro musicale – scomparsi tutti gli altri – sopravvive con pari dignità di quello verdiano è La Pulzella d’Orléans di Pëtr Il’ič Cajkovskij. Una grande opera, a mio avviso, ingiustamente trascurata al di fuori della Russia.

Opera che, naturalmente, è di un autore cui poco o punto interessava la storia dell’ultimo scorcio della Guerra dei Cent’anni, per appassionarsi invece a quella d’una fanciulla eroica negli atti ma nel cui animo lottano le contraddizioni d’una coscienza via via corrosa d’incertezze e paure, ravvolte attorno all’irrisolto nodo della sensualità. Scolora quindi il dualismo schilleriano tra felicità terrena e superiore richiamo divino, lasciando poco spazio al dubbio su tale vocazione, per dare invece libero corso all’espansività appassionata d’una donna semplicemente, sublimemente innamorata.