
Come appariva l'attuale sede de Il Giorno
Milano, 17 maggio 2016 - Dicono che rovistare nei ricordi e mescolare le stagioni della vita serva ad allungare l’esistenza. E per gente che si occupa di piante, fiori e bulbi, diamine se deve essere vero! Curioso leggere di Gramsci che dal carcere scriveva alla figlia Tania nell’aprile ’29 raccomandandole di acquistare “4 o 5 semi da Ingegnoli, in piazza Duomo o in via Buenos Aires” perché poi potesse piantarli nel quarto di metro quadrato dove gli era permesso di stare.
Il nome di quegli agronomi milanesi lo citava anche Verdi in una lettera del marzo 1888, perché gli avevano fatto recapitare dei deliziosi kaki e lui li ringraziava per la gentilezza. Già, la gratitudine. Sui bigliettini di Natale del 1900, assieme agli auspici per il nuovo secolo, l’avevano espressa anche i dipendenti della “Fratelli Ingegnoli” che in quegli anni si era sistemata in una bella sede chiamata “Casa”, poco fuori Porta Venezia. «Speriamo che arrivi la luce elettrica», scrivevano e si scopre così che nei magazzini delle sementi e dei cereali si lavorava ancora con le lampade a petrolio. Arrivò eccome la luce elettrica. Arrivarono anche i “Cataloghi” che proponevano all’Italia unificata la vendita per corrispondenza di ogni tipo di vegetale. E arrivò anche la consacrazione della “Casa”, primo laboratorio milanese del vivaismo e del verde ornamentale. Scampoli di una storia di famiglia fatta di generazioni, eredi, nomi ripetuti (Francesco e Paolo), tenuti insieme da un fil rouge interminabile, a cominciare dal capostipite, Francesco Ingegnoli, che aveva lasciato Sesto Calende per Milano e nel 1789 aveva aperto un primo vivaio nella zona dell’attuale Centrale.
Un predestinato: nell’ordinamento di allora, “Ingenuiles” significava “uomini liberi che coltivano la terra”. E fu il nipote Francesco a coinvolgere i fratelli Vittorio e Paolo: rilevare l’attività della francese Burdin che aveva aperto vivai in mezza Milano e promosso la cultura delle piante ornamentali in un mondo ancora prettamente agricolo. Come diventare grandi dopo l’adolescenza: fare i conti con le finanze, allearsi con gli istituti di credito, andare davanti a un notaio e costituire la società “Fratelli Ingegnoli”. Poi il passaggio decisivo, nel 1894, con l’acquisto di un’area al 54 dell’allora corso Loreto, poi diventato corso Buenos Aires. Idea coraggiosa: riunire in una grande sede abitazioni di famiglia, uffici, reparti di spedizione, serre. Con tanto di choc visivo: un palazzo austero, perfino eccessivo in una Milano che finiva ai Bastioni perché lì era ancora campagna aperta.
La sua inaugurazione aveva provocato ammirazione ma anche sconcerto. Poco male. Per tutti era la “Casa” e lo fu davvero per i fratelli Ingegnoli: per Vittorio, che aveva frequentato l’Accademia di Brera; per Francesco, vivaista e socialista convinto. E per Paolo, che alla morte del conte Aldo Annoni, aveva rilevato i suoi terreni e avviato l’attività immobiliare, perché urbanizzare l’area tra Settembrini e corso Loreto avrebbe sviluppato la domanda di verde pubblico e il gusto per gli orti e i giardini decorativi. Un colpaccio, con nuove lottizzazioni, non ultima la costruzione dell’Hotel Diana. E al centro di tutto, la “Casa”, 4 piani, il tocco glamour delle terrazze interne, il lato su via Ponchielli dei magazzini per le sementi, presto arricchito di un piano superiore e di una sorprendente galleria d’arte aperta al pubblico.
Fino alla storia recente, con l’ultimo erede, Francesco Ingegnoli (nella foto sopra), a prendere il testimone da zio Tomaso e papà Paolo: l’abbandono di corso Buenos Aires dopo cent’anni per la sede in via Salomone ma anche l’apertura di un Garden Center in via Pasubio, su un terreno della Feltrinelli. Dualismo perfetto, ma non eterno. E adesso che gli Ingegnoli sono nella sola periferia sud-ovest, pare uno sgarbo alla loro storia e all’impegno che in tanti avevano sottoscritto, anche in Comune, perché una simile azienda potesse continuare ad avere una presenza in centro. Nell’attesa, il pensiero di Francesco Ingegnoli torna spesso lì, alla “Casa”, a quel palazzo ottocentesco allineato lungo il vecchio viale Loreto, alle finestrature della facciata, alle balaustre e ai timpani dei piani alti. Quello stesso palazzo che in una sorta di catarsi, oggi è diventata la nuova sede de Il Giorno. «Dobbiamo tornare in centro», ripete Francesco. E scomoda ancora una volta l’utopia visionaria di una famiglia di agronomi che a Milano aveva sognato di vendere granaglie e sementi: finì per riempirla di ossigeno e clorofilla.