DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Ivana Trettel, oltre le sbarre: “Sul palco attori ed ex detenuti per ripensare l’idea del male e riflettere sulla nostra società”

Al Castello Sforzesco arriva lo spettacolo teatrale nato all’interno del carcere di Opera. La regista: “Che emozione creare bellezza in luoghi in cui di bellezza ce n’è molto poca”

01 EXTRAVAGARE - OPERA LIQUIDA - PH.LUDOVICA SAGRAMOSO SACCHETTI

Un momento dello spettacolo

Il titolo è affascinante: Extravagare. Rituale di reincanto’. Possiede al suo interno alcuni temi fondamentali di questo nostro presente. Amplificati dal fatto che tutto nasce nel Carcere di Opera grazie al lavoro di Opera Liquida, la compagnia fondata e diretta da Ivana Trettel.

Lei la regista di uno spettacolo che per la prima volta esce dalla casa di reclusione: domenica alle 21 al Castello, per Milano è Viva. Sul palco i simboli legati alla civiltà della Grande Madre, la sociologia contemporanea, la decostruzione di un’idea di male insito nella natura umana. Con attori ed (ex) detenuti accolti dalle scenografie ispirate all’artista cinetico Giovanni Anceschi, Compasso d’Oro alla carriera.

Ivana Trettel, abbiamo bisogno di reincanto?

“Assolutamente sì. Viviamo un disincanto atroce, in termini sociali, culturali, politici. All’interno di una società deritualizzata che ha perso il senso di comunità, di solidarietà reciproca”.

Quando nasce lo spettacolo?

"La scrittura è iniziata durante il covid, periodo soprannaturale, difficile da leggere. Un giorno ho ascoltato un’intervista ad Arjun Appadurai che sottolineava come avessimo creato una società deresponsabilizzata, in cui la nostra funzione sociale si risolveva nel consumo. Ma che improvvisamente ci siamo ritrovati in una situazione ribaltata: il nostro agire presupponeva conseguenze dirette per gli altri. Su questo abbiamo lavorato con i detenuti. Fra loro c’era anche Alex Sanchez, penna straordinaria. E insieme ci siamo poi imbattuti nella Società della Grande Madre, di cui non sapevo nulla”.

Di cosa si tratta?

“Una civiltà vissuta per ventimila anni, una forma di culto della Grande Dea studiata a lungo dall’archeologa Marija Gimbutas, con dinamiche sociali paritarie, non belligeranti, focalizzate su arte e bellezza. L’esperienza mostra come l’orrore non sia insito nella natura umana. Motivo che ci ha spinto ad attraversare quell’immaginario, anche grazie al lavoro fotografico di Giuditta Pellegrini”.

Cosa aggiunge ragionare sulla società da una casa di reclusione?

“Il tempo. La possibilità di fare ricerca, nessuno attende il tuo debutto. C’è poi un’intensità diversa. Attori e maestranze mostrano generosità e stupore di fronte al creare insieme bellezza in luoghi in cui di bellezza ce n’è molto poca. Questo permette di condividere energia e verità, di superare i limiti attraverso l’impegno. Che non vuol dire poi avere un eloquio perfetto”.

È un periodo che si parla molto di carceri.

“Sì, mia figlia dice che siamo alla moda…”.

Dal suo punto di osservazione?

“Ogni carcere ha una storia a sé. Per Opera è impossibile raggiungere certi livelli di sovraffollamento, essendoci ad esempio il 41-bis. Più in generale vedo un problema urgente rispetto ai reati minori, che vanno a riempire gli istituti e che invece avrebbero bisogno di percorsi differenti. E credo che sarebbe da fare una riflessione molto attenta su come trattamento e sicurezza non siano elementi opponibili ma temi legati, che necessitano di una stessa risposta. Non a caso Brecht diceva ’prima la pancia e poi la morale’. Difficile non pensarci quando leggi la lettera di un detenuto che parla di quindici persone in una cella, con 40 gradi e un bagno solo”.

C’è sempre onestà intellettuale in chi lavora nelle carceri?

"È difficile giudicare le ragioni degli altri. E il tema può valere per tutti. Ma ultimamente osservo spesso pratiche artistiche che si ritrovano a inseguire le direzioni indicate dai bandi e dai finanziamenti. Come se si accettasse un andamento generale per ragioni economiche, invece di proteggere le proprie urgenze”.

Lei sente ancora forte quell’urgenza?

“Sì, moltissimo. E anche l’entusiasmo. Poi chiaramente c’è tutto l’ambito più amministrativo che rimane faticoso. Sei lì per alzare l’asticella, per fare teatro e non rieducazione, pur riconoscendo gli effetti meravigliosi di certi percorsi. Ma sei anche all’interno di un’istituzione totale, che ha le sue regole, delle cornici. L’organizzazione non è facile per entrambe le parti e una delle chiavi è il rigore con cui proviamo ad affrontare il teatro e le sue pratiche”.

Il momento più bello?

“Al Carroponte qualche estate fa, facevamo spettacolo prima di Ascanio Celestini. Davanti a noi c’erano 1.200 spettatori, mi stava venendo un colpo”.

Nei prossimi mesi?

“Sarà un autunno caldo, con la terza edizione della nostra Masterclass, due giorni di approfondimento sui nostri temi attraverso il dialogo fra profili diversi. E poi ci sarà il debutto della nuova produzione ’Selvatico ancestrale’”.