Milano – “Mancano cento giorni. Per me è difficile non vedermi più al timone tra tre mesi, dopo otto anni così impegnativi e pieni di montagne russe. Ma il primo ottobre entrerò qui come semplice utente". James Bradburne, direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense, è "pronto a staccarsi".
Ma prima dei titoli di coda lancia un "piano strategico", senza nascondere la stanchezza e un velo di amarezza: "Perché ci sono ancora tante cose da fare, sarei andato avanti. Ho cento giorni per indicare una direzione, lasciare la casa in ordine e le chiavi sul tavolo. Sarei irresponsabile altrimenti. Andiamo a ’Brerare’: Brera è un verbo, deve essere la bussola".
Direttore, la sua eredità più importante?
"Abbiamo provato a dimostrare che un museo statale di livello internazionale può essere reinventato e reso al servizio della città. Ricordate il rumore e la polemica sui direttori stranieri che ‘non conoscono nulla sulla cultura italiana, bla, bla’ e che avrebbero trasformato un museo in circo, in discoteca? Ecco. Noi, partendo dalla conservazione, che resta imprescindibile, abbiamo riportato Brera nel cuore della città".
Non mancarono pure le critiche per avere fatto entrare sponsor ed eventi. Rifarebbe tutto?
"Anche qui. Mi dissero che avremmo aperto il museo ai privati. Ma io sono stato il più feroce di tutti contro certe politiche, abbiamo un’idea di prestito molto conservativa, non facciamo mostre di massa. Mi hanno un po’ utilizzato come pretesto all’inizio, ma è normale: si ha sempre paura dello sconosciuto. Succederà anche a chi verrà dopo di me. Le persone dovrebbero mettere subito le carte in tavola. E credo, in questo, di essere stato sempre molto trasparente, dai primi 100 giorni agli ultimi 100".
Com’è il suo rapporto con il ministro Sangiuliano e cosa ne pensa di una possibile “stretta“ ai direttori stranieri, a partire dalla conoscenza della lingua?
"I rapporti sono cordiali, non abbiamo litigato. Credo sia sempre desiderabile che la persona parli la lingua, anche se secondo me non è necessario: è un po’ come per i grandi allenatori italiani che guidano squadre all’estero. Io ho gestito realtà in Olanda, Germania, Francia e Italia. A parte il francese, che era la mia seconda lingua, ho dovuto imparare. Il mio italiano nel 2015 non era all’altezza del mio italiano di adesso, ma non credo abbia influito sul mio lavoro. Le cose importanti sono le competenze, lo spessore e la vastità dell’esperienza in management. Perché il museo moderno non è il museo di 30 anni fa, è cambiato. Poi se il ministro vuole mettere un B2 in italiano, tanto meglio, si vedrà".
Brera attira sempre turisti internazionali. Ma sono tornati i milanesi?
"Eccome, c’è stata la rivoluzione copernicana che speravo all’inizio. E sono tornate le famiglie, che sono di casa. A noi non interessa un turismo di massa, mordi e fuggi, ma un turismo di impegno, di cittadinanza, consapevole. Purtroppo guardandomi intorno vedo che non abbiamo imparato molto dalla lezione del Covid... Dovremmo essere tutti più responsabili: un museo che non misura il suo impatto ambientale è cieco. Noi abbiamo tenuto le prenotazioni nonostante siano venute meno le restrizioni, perché ci interessa un turismo di qualità, non da selfie. Non parliamo di visitatori ma di fruitori".
Quando vedrà la luce Palazzo Citterio Brera Modern?
"Nell’autunno del 2024 il palazzo sarà pronto. Come la Grande Brera. Ma non ci sono ancora le persone per aprirlo. Non dipende da noi, ma dal ministero, che ha promesso che si occuperà delle assunzioni. Servono tra le 34 e le 40 persone".
C’è ancora un progetto che manca a Brera, che non ha avuto il tempo di sviluppare?
"Progetti ce ne sono sempre tanti, ma credo di avere chiuso l’esperimento con BreraPlus. Un museo aperto 24 ore su 24 e sette giorni su sette anche a chi non può venire qui, è a Singapore o a New York. È il mio lascito a chi verrà dopo di me. Spero ci lavorerà su per i prossimi anni".
Il consiglio che darebbe al suo successore?
"Abbi molta pazienza. Ma anche coraggio. E avanti".