Milano – Volete divertirvi ma il Capodanno vi scatena una dermatite nervosa? Vi piace stare con gli amici, ma detestate botti e trenini? Intanto sappiate che non siete soli: il disagio é diffuso e ramificato. Transgenerazionale. E forse c’è una soluzione: il Lella Costa Late Show al Teatro Carcano. Garanzia di risate e di pensiero. Che forse é l’augurio migliore per il nuovo anno. Lei sul palco in compagnia del pianista Carlo Fava. Per una stand up raffinata, dalle unghie lunghe, rigorosamente in rosso. Biglietti non proprio popolari (84 euro) ma sono inclusi panettone e dj-set, nel caso si cambiasse idea sulle danze.
Lella Costa, pronta a lanciare i brindisi?
“No guarda, io non so mai cosa fare a Capodanno. Direi che lavorare è la soluzione migliore. Per me è incomprensibile il fatto di festeggiare il tempo che passa, gli stessi compleanni andrebbero aboliti dopo una certa età. Sono ricorrenze collettive nefaste. E lo penso da sempre, mica adesso che sono vecchia”.
Quindi nessun trenino?
“Propongo di abolirli per legge. Mi imbarazza il solo pensiero. I miei migliori capodanni sono stati a cena con amici, non facendo nulla di straordinario, giusto il tempo di arrivare al brindisi per poi dirsi: ciao!”.
Cosa porterà sul palco?
“Mi accompagna il pianista Carlo Fava, con cui ho scoperto un’ottima sintonia. Tanto è vero che mi metterò a cantare, cosa di cui chiedo perdono in anticipo. Ci saranno monologhi di repertorio e altri che magari sul palco non ho mai portato, come alcune pagine su Milano che scrissi tempo fa per un libro. Mi sembrava starci bene una riflessione sul rapporto che abbiamo con la città e sul senso di dare e avere che accompagna la mia codirezione del Carcano”.
Partiamo dalle cose importanti: come si vestirà?
“Rosso. Conscia di tutta la banalità della scelta. Ma con eleganza. Una lunga gonna bordeaux, nessuna scollatura”.
Elegante come una Milano che è cambiata parecchio.
“Credo che l’errore sia pensarla in maniera univoca. La città ha forme diverse e alcune di queste si stanno allontanando dalle sue antiche contraddizioni che però ne determinavano l’identità profonda: l’essere resistente, combattiva, accogliente. Milano oggi è complessa, sia apparenza che sostanza, cambia dal giorno alla notte, vi nascono nuove e bellissime infrastrutture ma mancano cose importanti. Non è facile da leggere. Come non deve essere facile governarla e non lo dico per difendere Sala”.
Però siamo qua.
“Perché alla fine ne siamo innamorati. E le storie d’amore sono sempre piene di contraddizioni. Ci si prende tutto il pacchetto, cercando nel proprio piccolo di migliorarla, quando possibile”.
Dove ha cominciato?
“In via Ascanio Sforza, al Grand Hotel Pub. E poi Zelig. Eravamo un nuovo gruppo di “comici spaventati guerrieri“ come scriveva Stefano Benni, il palco per noi doveva essere militante e sbeffeggiante. Tutto questo in un periodo in cui la comicità esplodeva, andando però in tutt’altra direzione con Drive In: lo sketch breve, di battute e tormentoni, le risate finte in sottofondo”.
Non era il suo.
“Figurarsi, mi sono sempre considerata nipotina di Walter Chiari. Qualche battuta mi viene bene, ma privilegio la costruzione del racconto rispetto all’esito. È quella la mia scuola, se vogliamo l’orizzonte di Franca Rame e Dario Fo, per quanto loro avessero una componente più giullaresca. La mia grande passione rimane il linguaggio”.
Linguaggio oggi assediato dal politicamente corretto.
“La parola va contestualizzata. Il teatro è il luogo della libertà e della scelta, il pubblico decide di venire in sala e non ha certo bisogno di essere protetto da nulla. Le ganasce del politicamente corretto uccidono il mestiere in tutte le sue declinazioni e arriva per assurdo ad essere una forma di controllo sociale. Affermando di voler proteggere sensibilità e minoranze – cosa in sé fondamentale –, trasforma l’attenzione in mutilazione, visto che alla fine uno decide di non dire. Ma la sola idea di censura a teatro fa ridere”.
Come sta invece il settore rispetto alla parità di genere? “La presenza femminile è solida e diffusa. Però continua ad esserlo meno in alcuni ruoli. Ci sono ad esempio tante attrici ma pochissime autrici o registe. Su questo c’è da lavorare, lungo un percorso che avevamo iniziato già all’epoca con “La tv delle ragazze“ di Serena Dandini. Forse sono stata la prima a esibirmi raccontando storie senza il filtro di un personaggio, senza una maschera. C’è poi un dato che va tenuto in considerazione: il 70% del pubblico è femminile”.
Il Carcano?
“A me sembra che stia andando molto bene. E ringrazio Carlo Gavaudan che ha deciso di rilevarlo quando ancora c’era il Covid, affidandosi totalmente alle donne, non solo per la direzione artistica che condivido con Serena Sinigaglia e Mariangela Pitturru. Io non faccio molto, ma lo faccio con passione e spero onestà intellettuale, parole che sembrano quasi estremi di reato. Abbiamo lavorato per non snaturare il luogo, mantenendo il legame con il pubblico. Ma nel frattempo ridisegnandone l’identità, ora aperta a contaminazioni e nuovi progetti”.
Pensando a questi quarant’anni sul palco?
“Di una cosa sono grata: aver capito che non mi interessa piacere a tutti. A teatro ci si sceglie. Ma non c’è bisogno di essere ecumenici”.