
L'architetto Massimiliano Fuksas con la moglie Doriana
Milano, 17 giugno 2018 - Ultimo domicilio conosciuto: Tel Aviv, lunedì scorso, ospite d’onore al Festival dell’architettura israeliana, Paese in cui sta progettando il nuovo Centro congressi internazionale. Cosmopolita di natura e di fatto, Massimiliano Fuksas. Oggi a Capodistria, dove ha vinto il concorso per Capo Grande Tower. Ieri a Napoli: Stazione Duomo della Metropolitana. Domani in Cina, impegnato con lo Shenzhen Bao’an International Airport. Ogni tanto a Roma, dove abita con la moglie Doriana.
Architetto Fuksas, partiamo alla grande: lo stato dell’architettura, per non dire della cultura, oggi in Italia? «Le parole non rimangono sempre uguali nel tempo. Si trasformano, cambiano di significato. Così la parola cultura è diventata il termine élite. Una volta la gente studiava, magari filosofia, per capire ma anche per aiutare la gente. Una volta leggere un bel libro era considerato, anzi, era un piacere. Oggi l’élite è il nemico, perché e quale in realtà non si sa». Lei era all’estero. Ma certo ha saputo che da noi sono riusciti a fare un governo. Che rapporto hanno i politici con gli architetti? «Ci sopportano, grosso modo. In realtà non sanno molto di noi, ne hanno un’immagine, si sono fatti un immaginario. Pensano che fare architettura significhi semplicemente tracciare uno schizzo nella quiete di uno studio. Poi l’aeroporto si costruisce da solo. Certo, sarebbe bello… Noi invece abbiamo uno studio in Cina da undici anni, un altro a Parigi da trentotto, poi una sede a Los Angeles, oltre naturalmente a quella di Roma. Studi dove lavora una folla di collaboratori, interni o esterni: chi si occupa dei problemi energetici, chi della luce, chi degli esterni. Lavorare nell’architettura è come costruire una cattedrale». Lei lavora soprattutto all’estero. Moltissimo in Francia.. «Certo, lavoro molto più all’estero. Ma non per colpa mia. Pensa che non mi piacerebbe avere un bel cantiere sotto casa? E disporre di tutto il tempo necessario per incontrare i miei amici, le persone simili a me, che abbiano o meno studiato non importa. A Parigi mi chiamò Jack Lang ai tempi della presidenza Mitterrand». Ma l’architettura non potrebbe dare una mano a creare una cultura universale? «L’ho detto in un microdibattito televisivo con Salvini: sogno un mondo senza passaporti e senza frontiere. Lui naturalmente mi ha risposto: sì, è proprio un bel momento… E io: ma se siamo tutti emigranti, guardi la moglie di Bossi, di madre lombarda ma di padre siciliano! Io stesso sono romano, ma di origini lituane. E nella mia famiglia si mischiano tre religioni. Mia nonna credo fosse luterana, quando professare quella fede era pericoloso. Mio padre era ebreo. La mia mamma cattolica. La realtà è che noi umani apparteniamo a un’unica razza». Lei si considera un archistar? «Per favore! Macchè archistar. Io mi chiamerei piuttosto un idraulico, un po’ particolare, che aiuta il passaggio delle persone. Ma qualche volta anche dell’acqua… Mi considero un artigiano. E non guardo mai ai titoli della gente. Mi piacerebbe che anche noi adottassimo le usanze anglosassoni, quelle per cui tutti sono semplicemente ‘signore’. E persino per nome, senza il cognome». Ma oggi sono tutti star, architetti e attrici porno. O chef. O masterchef… «Appunto. Io sogno di incontrare un cuoco che sa fare bene la pasta con pomodoro e basilico. E che sa qual è la stagione giusta per quel piatto. Altrimenti il pomodoro finisce per prendere un sapore acido». E dei colleghi archistar che pensa? «Non li conosco. So solo che ci sono architetti bravi e altri che non lo sono. Come i pasticceri che fanno le torte: a volte sono buone, altre no. Sa chi era un grande architetto? Il Borromini, che si formò nell’umile mestiere dello scalpellino e raggiunse Roma da Milano a piedi, alla maniera dei pellegrini. Altro che il Bernini…». Lei non è molto amato in Italia. Colpa del lato ‘artistico’ del suo lavoro? «Non me ne sono mai preoccupato, a me interessa fare della buona architettura. E credo che qualcuno mi abbia apprezzato se mi hanno fatto costruire quarantacinque edifici in Francia, un museo, un aeroporto a Pechino». Che cos’è la buona architettura? «È dove la gente sta bene, dove sta bene dentro. Se in un palazzo, in una casa stai male, lo avverti subito». Lei posti come il Corviale ha dichiarato che li abbatterebbe subito. «Certo, sono luoghi della disperazione». Fuksas, non sarà mica diventato un architetto populista… «Populista? Non so che cosa sia il popolo. Una parola che viene da ‘pioppo’, in latino. La gente lo ignora ma ‘piazza del popolo’ significa in realtà ‘piazza dei pioppi’». Bellezza o funzionalità? Il ponte di Calatrava a Venezia è bello, ma la gente vi scivola. «Io credo sempre nel binomio etica-estetica. Non per nulla è stato il titolo della mia Biennale veneziana, la settima, anno 2000: ‘Less Aesthetics, More Ethics’. Ovvero ‘Meno Estetica, Più Etica’». Quanto partecipa sua moglie Doriana al suo lavoro? «Le mie opere sono tutte di mia moglie. A lei devono la loro armonia. Quando vi si trova qualche rudezza, ecco, lì c’è la mia mano. Io sono il tronco, lei le foglioline». È la luce, uno dei punti di forza della sua architettura? «Quella è opera di tutti e due. La luce è colore, la luce è felicità. Dall’antichità si parla di tre luci. La più importante è la ‘magica’: ogni tanto capita che si manifesti». Il suo progetto non ancora realizzato? «Una città». Dove? «Dove ve ne sia davvero bisogno».