ANDREA SPINELLI
Cultura e Spettacoli

Paolo Fresu: io, la tromba e la passione per Chet Baker / FOTO

Il musicista sardo omaggia Baker sul palco dell’Elfo

Paolo Fresu con Sandro Neri, direttore de Il Giorno

Milano, 17 gennaio 2019 - Sue So’ le laude, il jazz e l’honore. Et onne benedictione. Paolo Fresu pubblicherà tra un paio di mesi il Laudario di Cortona già proposto in alcuni festival, aggiungendolo ad una discografia impreziosita ultimamente da “Mare Nostrum III”, nuovo capitolo del progetto in trio con Richard Galliano e Jan Lundgren, e “Danse mémoire, danse” con il gruppo vocale corso A Filetta e Daniele Bonaventura. Il 15, 16 e 17 marzo è al Blue Note, ma intanto il trombettista di Berchidda, 57 anni, si trattiene all’Elfo Puccini di Milano fino a domenica con lo spettacolo su Chet Baker che ieri pomeriggio ha presentato in diretta Facebook alla redazione de Il Giorno.

Paolo, perché Chet Baker?

«L’idea di imbarcarmi in un lavoro teatrale da portare in giro per l’Italia è nata da una proposta del direttore del Teatro Stabile di Bolzano, Walter Zambaldi, e del mio agente Vittorio Albani. Forse una decina di anni fa non l’avrei fatto, ma dopo 35 anni di palcoscenico, con tanta voglia ancora di scoprire cose nuove, ho accettato. Ho pensato che sarebbe stato bello mettere in piedi uno spettacolo su Chet Baker perché, assieme a Miles Davis, è stato il mio maestro e il mio idolo. E perché la sua è una bellissima storia da raccontare, anche se complessa e triste, con importanti parentesi italiane piuttosto rocambolesche, visto che a Lucca conobbe pure il carcere».

Chet Baker patrimonio di tutti.

«Sì, un artista che è uscito dalla nicchia del mondo del jazz ed è diventato personaggio pubblico. E poi, sia con la tromba che con la voce, Baker si porta appresso una poesia che chiunque riesce ad apprezzare. Leo Muscato, il regista, si occupa innanzitutto di opera e non conosce il mondo del jazz, ma è riuscito lo stesso a tratteggiare un ritratto veritiero e onesto del trombettista di Yale, interpretato sulla scena da Alessandro Averone, mentre io sono il suo alter ego sul palcoscenico di un possibile jazz club assieme a Dino Rubino, piano, e Marco Bardoscia, contrabbasso. Insomma, questo spettacolo, non è un concerto, non è un musical, non è una pièce teatrale, ma la somma di due linguaggi che riescono a convivere grazie ad una storia importante».

Qual è stato il dilemma più importante da superare nel racconto della vicenda umana e artistica di Chet?

«Quanto peso dovesse avere l’uomo, con la sua vita difficile segnata dalle droga, e quanto il musicista, col suo talento straordinario. Tutto con l’apporto musicale di dieci brani originali scritti da noi e di grandi standard che vanno da “My funny Valentine” a “When I fall in love” attinti dalle centinaia e centinaia che Baker ha interpretato in vita sua. Chet non era un compositore, anche se scrisse qualcosa durante la detenzione lucchese (brani poi registrati nel ’62 a Roma con Ennio Morricone, cantando in italiano, e acclusi ad alcune ristampe dell’album “Chet is back!” - ndr), ma un interprete capace di fare sua qualsiasi musica interpretasse».

L’ha mai conosciuto?

«Ricordo ancora il cuore in gola del mio primo concerto al Capolinea al pensiero di stare sullo stesso palco dove s’era esibito lui, anche se poi lo conobbi al Teatro del Casinò di Sanremo, dove eravamo entrambi nel cartellone del festival jazz. Suonai “Round midnight” e alla fine mi si materializzò davanti per complimentarsi e io dall’emozione non riuscii a dire mezza parola».

A marzo esce l’album de Il Laudario di Cortona.

«Quando Umbria Jazz e Sagra Musicale Umbra mi hanno proposto il Laudario, ho pensato che ci fosse una distanza abissale tra la musica sacra del 13° secolo e il jazz. Poi, però, ci siamo lasciati tutti affascinare da queste melodie molto semplici, così abbiamo scelto tredici laudi ed è stato un incredibile successo».

Sabato (alle 11) presenta alla Feltrinelli di Piazza Duomo “Poesie jazz per cuori curiosi”.

«Non sono un poeta, ma il libro è scritto in forma poetica. Intesa come colore di poesia. Come quella di Davis o di Baker. Spesso pensiamo alla tromba come ad uno strumento maschile ma io lo vedocome uno strumento femminile, perché rappresenta la nostra voce; con un suono di testa, più che di pancia. Queste riflessioni, questi racconti, questi ritratti, hanno la sottigliezza di quel suono».