
Il gruppo del Pogue - vecchi e nuovi - durante una recente festa di San Patrizio (Domenico Lops)
Milano, 20 ottobre 2023 – Per l’affezionato pubblico di avventori del Pogue Mahone’s, il pub irlandese di Porta Romana, è stato a lungo un punto di riferimento. Un barman fidato, un amico con il quale fare due chiacchiere e scherzare, un professionista che ha allevato generazioni di baristi. Massimiliano Lomi – ma per tutti è Max del Pogue – oggi ha abbandonato il suo posto dietro il bancone del locale di via Salmini in buone mani. Si alterna fra il Mulberry Street di San Donato Milanese e il GolaSecca di Segrate.
Nessuno meglio di lui, però, può raccontare i 30 anni del Pogue – come è noto fra i clienti – fondato nel 1993 e diventato uno dei pub, irlandesi e non, più noti d’Italia. Lo fa per Il Giorno, alla vigilia di una grande festa in programma domani, sabato 21 ottobre, a partire dalle 11.30, nei tre ritrovi fra via Salmini e corso Lodi che oggi compongono l’universo Pogue.
Come venne l’idea di aprire un pub?
“Mio zio Emilio all’inizio degli anni ‘90 voleva aprire un locale. Uno suo amico, un designer milanese, gli presentò Patrick, un ragazzo irlandese che viveva a Milano e aveva in testa il progetto di gestire un pub irlandese. S’incontrarono e decisero di partire con l’avventura del Pogue Mahone’s. Dopo un paio di anni Patrick fece ritorno in Irlanda. A quel punto subentrai io”.
Chi scelse il nome? (Pogue mahone è l’anglicizzazione di un termine triviale gaelico che significa “baciami il c***” ndr)
“Il merito (o la responsabilità) fu di Patrick, irlandese del Donegal, una regione nel nord dell’isola di smeraldo, che utilizzava spesso questa esclamazione. In gaelico si scrive Pog mo thoin, ma i fondatori del locale la traslitterarono in inglese. Patrick rappresentò un’enorme fortuna per il Pogue, perché portò molti degli esponenti della comunità irlandese di Milano e della Lombardia a frequentare il pub”.
Come sono stati i primi tempi del locale?

“I primi mesi non furono semplicissimi. Meno male che c’era Patrick. Aveva un seguito di una trentina di irlandesi che ci aiutarono a pagare le prime rate dell’affitto. Successivamente si sparse la voce che a Milano esisteva un posto gestito da irlandesi e con una clientela anche irlandese. A quel punto il pubblico iniziò a crescere, anche perché in quel periodo i pub con un’ispirazione simile non erano moltissimi. La differenza, in quel primo periodo, l’ha fatta questo zoccolo duro di provenienza rigorosamente irish”.
Che identità ha il Pogue Mahone’s?
“A mio parere sono pochi i locali con un carattere tanto personale. Il Pogue è sempre stato differente. Nei miei 25 anni dietro il bancone di via Salmini tutti mi hanno sempre detto che bastava entrare nel pub per sentirsi in Irlanda. E il passaparola ha trasmesso proprio questo messaggio: ‘vai al Pogue perché sembra di stare in Irlanda, vai al Pogue perché è un locale dove puoi davvero fare public relations, nel senso più reale e genuino del termine’.
Il nostro è sempre stato un locale dove ci si ritrova e si crea una sorta di famiglia. Tanto che in questi giorni, ripensando al traguardo che abbiamo centrato, mi è venuta l’idea di ribattezzarlo ‘Pogue my home’, il Pogue è la casa di tutti i suoi avventori”.
Una casa particolare…

“Ma pur sempre una casa, accogliente e calda. Del resto in Irlanda accade proprio così: gli irlandesi non girano fra i locali, vanno sempre nel solito pub e non lo abbandonano mai. Il Pogue, fatte le dovute proporzioni, negli anni per una sorta di alchimia è diventato un ritrovo con questa impronta. Sono pochi i locali che hanno questa fortuna. E mi sento di dire che è un bene”.
Fra i momenti particolari nella lunga vicenda del Pogue, c’è sicuramente la visita di Shane Mac Gowan (il cantante dei Pogues, leggendaria folk-punk band angloirlandese, un nume tutelare per il locale, ndr). Cosa ricordi di quel giorno?
“Fu sicuramente una sera molto particolare. In quello storico incontro c’è sempre lo zampino di Patrick. Era andato con alcuni amici ad assistere al concerto milanese dei Popes (l’altra band di MacGowan, che fece tappa in Italia durante il tour del 1995, ndr) e riuscì a fare amicizia con Shane. Lo invitò al pub. A quel punto ricevetti una telefonata. Dall’altro capo della cornetta mi dissero: ‘Stasera non viene nessuno a lavorare, siamo a vedere il concerto di Shane MacGowan and the Popes, ti devi arrangiare’. Io risposi: ‘Qual è il problema? Me la caverò’. ‘Il problema – replicò il mio interlocutore – è che dopo il concerto veniamo lì con Shane MacGowan’.

Decidemmo di far entrare solo i clienti fissi, per evitare che il locale ‘esplodesse’. Fu davvero un momento indimenticabile, anche perché la salute di Shane stava già mostrando cedimenti, a causa del suo vizio. Ma fu un piacere enorme vederlo lì al banco, assieme agli avventori più affezionati. Per me è stata una svolta fondamentale per il Pogue, uno dei momenti in cui si palesò quell’alchimia di cui parlavo prima. Era come se fosse entrato al pub il Signor Pogue”.
A proposito di altre serate di culto, che mi dici delle feste di San Patrizio (il 17 marzo, ndr), ormai diventate una tradizione?

“Anche questa è un’eredità di Patrick. Fu lui il primo a parlare delle celebrazioni per il ‘Paddy’s day’ in Irlanda. Siccome in quei giorni è molto complicato organizzare un viaggio a Dublino o in altre località, decidemmo di inventarci una giornata di festa al Pogue, complice anche una certa richiesta da parte degli avventori. La manifestazione è cresciuta nel corso degli anni, fino al 2010, l’anno della vera consacrazione. Quell’edizione per il nostro locale fu come per una squadra vincere il Mondiale per club (paragone non casuale dato che in quell’anno il trofeo fu vinto dall’Inter, squadra di cui Max è grande tifoso, ndr). Pensai che sarebbe stato difficile superare quel livello di partecipazione, invece l’anno scorso abbiamo centrato il traguardo di migliorare i numeri del 2010”.
Qual è il segreto del successo del Pogue a 30 anni di distanza dalla sua fondazione?
“Le persone che, negli anni, lo hanno frequentato, come avventori ma anche come baristi. Personaggi noti come Alessandro Cattelan, che ha iniziato a venire quando aveva appena iniziato ad apparire in tv, l’altro vj Federico Russo, il cantante e dj Andrea Rock che con i suoi Rebel Poets ha dedicato una canzone al Pogue per i suoi 30 anni, il pugile Marvin Hagler. Ma anche personaggi ‘sconosciuti’ che per il pubblico del locale sono piccole leggende.
Mi piace pensare che il Pogue sia un ‘contenitore’, ma chi lo fa siano i clienti e le persone che qui hanno lavorato. Il bello del nostro pub è che al bancone puoi scambiare due chiacchiere con l’avvocato come con il muratore”.
