Milano – Non avrà la bacchetta ultrachic di Harry Potter. E non c’è nessuna scopa volante parcheggiata nel box. Ma certo, se si parla di maghi, Raul Cremona non ha nulla da invidiare ai colleghi più celebrati. Anzi.
Considerando che è riuscito pure a ribaltare l’immagine delle arti magiche in Italia. A colpi di comicità e talento. Una specie di incantesimo. Come si può vedere ancora una volta al Teatro Manzoni di Milano grazie al suo Festival della Magia, in programma dal 3 al 6 gennaio. Sul palco ospiti internazionali. E lui nel ruolo del gran cerimoniare. Tutto da ridere, s’intende.
Raul, cosa caratterizza questa settima edizione?
“Abbiamo personaggi straordinari, fra cui i Mag Edgard, artisti spagnoli che nei loro spettacoli s’ispirano agli immaginari di Tim Burton. Diciamo che dopo lo scorso anno in cui sembrava un po’ il mio festival, torno con piacere a fare il padrone di casa”.
Come sta la magia?
“È in continua evoluzione. Parliamo di un mondo cambiato tantissimo da Silvan o Tony Binarelli, dai fiori che spuntano da un cappello, quell’immaginario un po’ agé con cui ormai è impossibile stupire qualcuno. Oggi piace molto l’illusionismo, quello alla David Copperfield. Ma se nei paesi anglosassoni il mago è da sempre parte del grande show, qui invece è stato a lungo visto come una figura da commedia dell’arte, destinata alle feste dei bambini. Difficile sdoganare uno sguardo differente. Credo però che alla fine ce l’abbiamo fatta. E di avere avuto un ruolo in questo processo, attraverso la comicità”.
È ancora così anche in tv?
“Assolutamente sì. A differenza di chi lavora solo sulla parola, io posso poggiare su uno spettro di riferimenti molto più ampio, sia in termini di discipline che di linguaggi: ci sono la gag, il movimento, il numero, l’aspetto visivo, i miei personaggi. Dicono vada di moda la stand-up, il monologo che a me sembra sempre più o meno la stessa cosa, la faceva già Walter Chiari. Ma in ogni caso la magia piace e il pubblico apprezza. Poi in una situazione del genere diventa una specie di dono”.
Cosa intende?
“Che se tutto va bene si finisce in pareggio. Ma mi fa piacere pagare una decima a questo mondo che mi ha dato così tanto. A quei signori che mi accolsero per la prima volta al Club Arte Magica”.
Di cui ora è presidente onorario.
“Quando ci misi piede da ragazzo c’erano solo questi maghi anziani, veri appassionati che durante il giorno lavoravano come operai e idraulici. Gente straordinaria che ha permesso al mio sogno da bambino, di diventare una professione”.
Quindi vale sempre la pena regalare la scatola del Piccolo Mago.
“Sempre! Anche perché ci sono due modi oggi di diventare maghi. Puoi fare il mago spettatore, divertendoti a guardare i film di Harry Potter. O decidere di diventare protagonista, di giocare, allenarti, stupire”.
I suoi maestri?
“Totò, Eduardo, Walter Chiari. Fra gli americani Jerry Lewis, il più grande di tutti”.
Il numero che le viene meglio?
“Le carte che passano da una mano all’altra fra gli spettatori. Oppure quella firmata che esce dal mazzo e la ritrovo in una busta sigillata dentro il portafoglio. Ma sono cose che faccio solo quando ho tempo, in tv scelgo cose veloci, l’obiettivo è la risata. Io la chiamo paramagia”.
Le è mai capitato di perdersi in tutti quei trucchi?
“A volte faccio fatica a ingranare, specie in quelle situazioni in cui il pubblico è composto dai dipendenti di una società usciti da sei ore di riunioni. Mi guardano attoniti e io inizio a correre, facendo confusione. Poi riprendo il filo. Quando ho cominciato erano invece gli scherzi dei colleghi che mi incasinavano. Walter D’Amore e Francesco Salvi mi nascondevano gli oggetti di scena. Io aprivo una scatola in cui doveva esserci la banconata scelta dallo spettatore e non c’era niente. Con loro in platea che la sventolavano felici”.
Begli amici.
“Lascia perdere. Ma quanto ci divertivamo. E comunque io ero la matricola, quello più giovane, me ne beccavo d’ogni”.
La svolta?
“Mai dire gol nel 1996, il personaggio di Oronzo. Già prima ero stato pupillo di Raffaella Carra e Johnny Dorelli. Ma in quel momento è cambiato tutto. Cosa che mi ha dato anche la possibilità di lavorare per trent’anni nei teatri”.
Si diverte sempre?
“Sì, anche se sono un po’ più stanco, quindi cerco di essere selettivo. Il problema è che come al solito le situazioni in cui non ti pagano sono quelle dove ti diverti di più. Da una parte ci sono quindi le cose aziendali, politicamente corrette, irrigidite. Dall’altra le serate senza un soldo ma in cui sei circondato da amici e riesci a tirare fuori la versione più bella di te stesso”.
Meglio tenersi strette le seconde.
“Sì, sono d’accordo. Alla fine il resto è solo mestiere”.