
Paolo Giorgio, fondatore del collettivo 'Circolo Bergman' (foto Simona Giuggio)
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Milano, 5 gennaio 2021 - "Sto parlando da un margine". Così afferma Paolo Giorgio, insegnante di regia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. Un margine tuttavia densissimo. Che molto caratterizza la scena milanese. Almeno nei suoi esiti migliori. In questo caso un territorio di ricerca al confine con le performing arts. Che ormai da tempo il regista quarantenne indaga con Circolo Bergman, collettivo artistico fondato con Sarah Chiarcos e Marcello Gori.
Paolo, ha lavorato in questi mesi? "Ho continuato a insegnare online per la Paolo Grassi. Mentre i progetti di Circolo Bergman sono saltati e ora siamo in una fase di documentazione e studio". Quali le conseguenze della chiusura? "Da febbraio a giugno avremmo avuto cinque spostamenti al mese. Pur nella drammaticità, al momento del primo lockdown ho sentito il bisogno di mettermi in pausa, di non esistere. E questo al contrario di molti che si sono riversati sul web, cercando di avere conferma di se stessi. Vorrei che si tornasse a una delle caratteristiche proprie del teatro, il fatto che non resti nulla al termine dello spettacolo. Non credo sia un caso che un grande maestro come Danio Manfredini si sia chiuso nel silenzio". Maestro di una Milano splendida ma nascosta. "Fa parte di quegli artisti che dovrebbero rappresentare la città in Europa. Penso a lui, ad Astorri/Tintinelli, a Danae, al lavoro sul territorio di Atir. Eppure è come se fossero considerati a parte. Sotto i riflettori ma senza ribalta". Quale il ruolo oggi del teatro in una comunità? "Questa è la grande domanda. Credo che il teatro debba mettersi in ascolto, permettendo un’immersione acritica nei bisogni per restituirli poi con sguardo diverso. È un incontro attraverso strumenti artistici, l’autorialità subentra in un secondo momento. Un teatro fuori dal teatro". Come porsi in relazione con il sistema produttivo? "Circolo Bergman è prodotto da realtà importanti ma siamo mobili, non strutturati. Questo perché non vogliamo votarci alla burocrazia. Non possiamo vivere rincorrendo bandi e documenti. Dopo anni di lavoro ogni volta devi tornare di fronte all’istituzione a spiegare chi sei e che cosa fai. Il sistema non è in grado di leggere il settore. Poi però va a chiedere al Teatro della Contraddizione di inchiodare le poltrone a terra. Cose folli". Quindi? "Non abbiamo di fronte un Jack Lang. Quindi dobbiamo noi per primi crearci spazi, modi, comunità temporanee. Dare vita a un teatro esplorativo sapendo che ci troveremo nel deserto e senza aiuti. Pensare insieme a un’alternativa nostra". Come si insegna teatro nell’assenza? "Proteggiamo la continuità didattica, pur sapendo che comporta un incessante lavoro di riorganizzazione. Rispetto ai progetti internazionali di cui sono responsabile, credo molto nell’importanza della mobilità degli artisti. Una visione che la Paolo Grassi ha sempre alimentato e che ora con la nuova direzione di Tatiana Olear ha trovato estesa progettualità". È stato fatto abbastanza per la scuola? "Lo Stato ha una visione caotica rispetto alla scuola e alla cultura. Mancano delle risposte ma non è facile darle. Certo continuo a non capire alcune cose. Perché ad esempio mi sia vietato di fare una passeggiata alla Pinacoteca di Brera e invece si possa andare a far la spesa in mezzo a cinquecento persone. Un mistero".