STEFANIA CONSENTI
Cultura e Spettacoli

Ugo La Pietra e Milano. “Io, artista anomalo e scomodo. Il mio unico errore? Non comprare un’opera di Fontana”

Figura eclettica, Compasso d’Oro nel 1979: “Sull’arredo urbano siamo indietro”. È stato il primo a scrivere un libro su Giò Ponti: “Figura divisiva, scomoda”

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Un ritratto dell'artista Ugo La Pietra

Milano – Si è mosso fra varie discipline, arte, architettura, design e perfino musica, didattica ed editoria. Sempre a suo agio. Ugo La Pietra, originario di Arpino, in provincia di Frosinone, classe 1938, milanese d’adozione, è stato uno sperimentatore. Artista eclettico. Ha operato dentro e fuori le discipline dichiarandosi sempre “ricercatore nelle arti visive”. Artista anomalo e scomodo e quindi difficilmente classificabile.

Si definisce ancora così?

“Certo, è la definizione migliore. Continuo a fare ricerca nelle arti visive. A seconda dell’argomento che affronto decido quale mezzo usare, dal cinema alla fotografia. D’altronde mi sono laureato con una tesi che si chiamava “Sinestesia fra le arti”, che potevo quindi fare se non quello che ho fatto in questa lunga carriera? Parlavo di sinestesia da una disciplina all’altra, travasare esperienze è salutare ma è pratica poco usata. Gli architetti? Sono sempre più arroccati sulle loro posizioni, si sentono anche molto artisti; le discipline si sono sempre più chiuse invece di aprirsi. È raro che un architetto vada a vedere le mostre d’arte e viceversa...”.

Stefano Boeri è presidente di Triennale ed è anche archistar.

“Ma è un caso singolo. Stefano ha un ruolo politico, avrebbe dovuto fare il sindaco”.

Lei ha vinto un Compasso d’oro nel 1979 per una ricerca di arredi per le Case Gescal. È stato anche curatore della Sezione “Audiovisiva” alla XVI Triennale di Milano.

“E ho anche avuto un premio alla carriera, ho lavorato molto sulle arti applicate, sull’artigianato che è un settore molto trascurato ancora oggi. Tutti sanno in Italia che esiste un sistema dell’arte, del design ma sulle arti applicate, sull’artigianato artistico c’è il vuoto totale. Abbiamo perso la cultura del fare”.

Ha conosciuto tanti artisti, da Lucio Fontana a Giò Ponti. Nel 1988 ha pubblicato il primo libro sull’attività di Ponti, prima edizioni Coliseum, in seguito per Rizzoli.

“Sono stato il primo a scrivere di lui, nessuno aveva avuto il coraggio di farlo”.

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Ugo La Pietra e Lucio Fontana nel 1967 alla Galleria “Il Cenobio” in occasione della personale di La Pietra

Per quale motivo?

“Veniva considerato una persona scomoda; è sempre stato un uomo di regime, prima e dopo la guerra. Poi faceva un design molto libero, partiva da oggetti molto decorativi per poi passare a bellissime architetture, ne abbiamo esempi nel centro di Milano. Era una figura divisiva, si era esposto sia nell’architettura sia nell’arredamento. E nella pittura. Non c’è uno specifico disciplinare per lui, lo storico dell’architettura non riesce a parlare di Ponti perché lo affronta solo da una certa angolazione”.

Anche il tema ambientale è al centro delle sue ricerche artistiche. È in corso la mostra “Il mio giardino”, sino a sabato, alla Paula Seegy Gallery, e ha scritto “Il Giardino delle Delizie”, pubblicato da Manfredi Edizioni, un volume che parla di progettazione urbana...

“Sin dagli anni Sessanta ho iniziato a fare esplorazioni urbane nelle periferie di Milano. Ricercavo quello che chiamo “i gradi di libertà“, slabbrature delle periferie che per me non erano fatti negativi ma positivi poiché l’individuo poteva ancora operare liberamente creando dei propri percorsi, costruendo strutture autonome”.

Oggi qual è la condizione delle periferie a suo giudizio?

“Non è migliorata moltissimo. Ci sono, però, delle occasioni di aggregazione, incontro, dovute alla volontà di gruppi di persone. La mia analisi sull’ambiente parte dagli anni Ottanta con le ricerche sull’arredo urbano. Ce ne sono stati di progetti nelle facoltà di Architettura ma nella città ancora non si vedono segni significativi. Trovo invece molto arrogante la tendenza dei ristoratori ad allargarsi, ad occupare una spazio collettivo, dai portici ai marciapiedi. Sfruttano quel fenomeno sociale, collettivo, che io chiamo delle “affollate solitudini“, ossia la tendenza a stare il più possibile insieme, finora poco indagato anche dagli stessi antropologi”.

Milano bocciata sull’arredo urbano?

“È arretrata. È l’unica città che rispetto alle altre metropoli europee non ha un progetto di illuminazione pubblica coerente. Una città poco accogliente dal punto di vista urbanistico. Dovremmo invece creare delle aree dove poter vivere momenti di sospensione, momenti in cui si ritrova la luce, i suoni, in una dimensione di microambiente. Per un nuovo rapporto con la natura, unendo spettacolarità e concettualità”.

Lei ha conosciuto Fontana, che ricordi ha di lui?

“Noi lo seguivamo, eravamo suoi allievi. Aveva una visione fantasiosa del concetto spaziale. Umanamente era speciale… alla mia prima mostra ha comprato un pezzo. E io ho fatto solo un errore nella mia vita”.

Quale?

“Non aver fatto scambio con Fontana e altri artisti che ho frequentato. Mi sarei sistemato per la pensione!”.