Milano – Quanta strada sui sandali di Vinicio Marchioni. A percorrere distanze complesse fra Luca Ronconi e Romanzo Criminale, il Freddo e Dino Campana. Che è un attimo ritrovarsi addosso l’etichetta di commerciale. Ma per smontarla ci vogliono poi bauli di pazienza. Mostrarsi per quello che si è. Un pezzettino alla volta. Come per “In vino veritas”, assolo dedicato al nettare degli dei e all’arte che ci è girata intorno. Sabato 11 al Teatro Manzoni di Milano. Accompagnato dalle musiche di Pino Marino e Alessandro D’Alessandro.
Vinicio, lo spettacolo suona come un omaggio alla vita.
“È così. Dopo tanta prosa sentivo il bisogno di tornare sul palco senza filtri né maschere. In un dialogo diretto col pubblico, fondato sulla semplicità. Non a caso il lavoro nasce anche da una riflessione sulla figura di mio nonno, anziano contadino cresciuto a pane e cipolle”.
Un mondo antico.
“Non però così distante. Parliamo di una sessantina d’anni fa, in mezzo è cambiato tutto, a partire dalla velocità che caratterizza le nostre vite. È stato poi rilevante il tema della malinconia. Mentre il vino si presta ad essere inesauribile trait d’union, simbolo di condivisione, ebbrezza, ispirazione. Da Omero in giù. È da quelle parti che ci si imbatte nell’idea di una creatività libera da canoni e convenzioni, in un periodo in cui perfino libri, film, spettacoli vengono definiti prodotti. Neanche li trovassimo sullo scaffale del supermercato”.
È una persona malinconica?
“Sicuramente. Parliamo però di un sentimento frainteso, non è solo qualcosa che ti butta giù. Per me è la distanza che ci separa da un momento preciso in cui sappiamo di essere stati felici. Ne sono affascinato, indagare sull’impossibilità di ricreare un contesto ideale ti conduce in un territorio profondamente creativo. A volte mi sembra che tutta la cultura non sia altro che un grande studio sul tempo, protagonista occulto di ogni romanzo”.
Perché ha scelto questa professione?
“Mi sono sempre rifugiato nella scrittura, cercando di creare realtà differenti. Scoprire le tecniche della recitazione mi ha fatto poi cambiare punto di vista sulle storie da raccontare. Dall’interno ti confronti con interrogativi inediti. Alla fine chi fa il mio mestiere è figlio della Caverna di Platone: siamo ombre che necessitano degli occhi dell’altro per capire chi sono”.
Momento di svolta?
“Il primo giorno alla scuola di teatro. Una rivoluzione copernicana”.
Ronconi?
“Un gigante. Grandissimo punto di partenza o forse di arrivo, non so. Mi ha insegnato a leggere i testi, indagarli. E che non esiste la verità, ogni cosa è frutto di interpretazione. La chiave di tutto diviene allora il nostro rapporto con l’opera, su cui poi si fondano le mediazioni successive con la macchina da presa, il regista, i colleghi. Ancora oggi, ogni volta che apro una sceneggiatura sento che Luca è di fianco a me”.
Gli ultimi successi sono arrivati sotto la direzione di Antonio Latella.
“Un uomo sensibile, onesto, d’incredibile profondità. Ci avvicina qualcosa di simile all’amicizia. È la prima persona che mi ha risistemato a teatro dopo Romanzo Criminale. Mi ha guardato con occhi puri chiamandomi per ’Un tram che si chiama desiderio’ e ’Chi ha paura di Virginia Woolf?’”.
Il teatro all’epoca ripudiò il “Freddo”?
“Ero improvvisamente troppo commerciale, dopo essere stato il giovane attore in ascesa. Poi è tornata la moda di chiamare interpreti cine-televisivi per riempire le sale, gente che spesso passa dal teatro per ripulirsi il pedigree. Sono stati anni complicati, di scelte non facili”.
Ma alla fine Romanzo Criminale è stato una benedizione o una maledizione?
“Oggi non posso che considerarlo una grandissima benedizione. Essere ricordato per un ruolo rimane una fortuna. E comunque ha avuto il merito di darmi le motivazioni per capire cosa volevo essere. Per questo a un certo punto ho rifiutato qualsiasi proposta per chiudermi in teatro a scrivere il mio primo testo su Dino Campana”.
Quest’anno invece è arrivato il primo romanzo: “Tre notti”.
“Mi è sembrato di avere la storia giusta. Un po’ avevo bisogno di fare i conti con la morte di mio padre; un po’ volevo parlare di adolescenza, periodo che tendiamo a dimenticare. So che il tutto sembra “l’ennesimo attore che scrive l’ennesimo libro”. Ma forse sono riuscito a mettere quello di cui stiamo parlando nella scrittura. La critica l’ha commentato con favore, per le vendite siamo alla terza ristampa. Un piccolo miracolo”.
Che rapporto ha con il giudizio?
“È inevitabile. Cerchi di fare il meglio ma il nostro è un lavoro che si scrive sulla sabbia, fra grandi successi e stagioni di risacca. Una lunga serie di centrifughe a cui un po’ ti abitui solo con il passare degli anni”.