JESSICA MULLER CASTAGLIUOLO
Economia

Coima, 50 anni di trasformazioni: “La città del futuro? Sarà inclusiva”

Manfredi Catella, Ceo del gruppo che ha plasmato la nuova Milano: pubblico-privato, svolta imprescindibile

Manfredi Catella guida il gruppo Coima, nato nel 1974 e tra i principali player nell’ambito degli investimenti immobiliari

Manfredi Catella guida il gruppo Coima, nato nel 1974 e tra i principali player nell’ambito degli investimenti immobiliari

Milano – Sfogliando “Ispiring Cities” – il volume edito da Skira che Coima presenta per celebrare il suo cinquantesimo anniversario – si scorgono i ritratti in bianco e nero della Milano anni Settanta. L’industria con la sua eredità da gestire e la «finta euforia della città da bere».

Manfredi Catella, Ceo del gruppo Coima, già sviluppatore di Porta Nuova: 50 anni sono tanti o pochi in questa “metropoli mancata”?

«È vero che non tutti i periodi e i luoghi hanno la stessa velocità di accadimento. Nemmeno in questo mezzo secolo. Se guardo infatti a Milano, la trasformazione urbana è proceduta a un’intensità senza precedenti soprattutto a partire dagli anni 2000. In questi ultimi 25 anni vedo due fasi distinte, una trascorsa e una in cui siamo appena entrati. La prima arriva fino al 2020, con la ricostruzione e la realizzazione di alcuni quartieri di nuova generazione. Mi riferisco, ad esempio, a Porta Nuova, Citylife ed Expo. Il loro peso non va calcolato a livello dimensionale, ma culturale: hanno riportato un metodo di trasparenza nei rapporti con istituzioni e investitori, la qualità, l’architettura. Insomma, hanno fatto bene alla reputazione della città».

E nella fase nella quale siamo entrati cosa distinguiamo?

«Quello che scorgiamo ci fa dire che sarà estremamente intensa e di grandissima discontinuità, con un innesto molto forte nel mondo accademico. La radice universitaria la distinguiamo già in progetti come l’ampliamento dello studentato della Bocconi, del Politecnico a Bovisa, della Caserma Garibaldi dove sorgerà il nuovo campus della Cattolica. Tutto questo va inquadrato in un mondo che dopo la pandemia è cambiato moltissimo. Il digitale e l’intelligenza artificiale. Ancora, la transizione ambientale degli edifici, il tema demografico, le disparità sociali».

A proposito di giovani, festeggiate all’ex scalo di Porta Romana, dove state costruendo il villaggio olimpico, destinato anche questo a diventare uno studentato. Le sfide che ha elencato sono affrontabili nella città del caro affitti?

«Nel nostro hackathon si sono confrontati studenti di 13 università. Squadre fatte di medici, filosofi, statistici, fisici, non solo ingegneri e architetti, chiamati a raccontare la loro idea di città di futuro. La cosa che mi ha colpito è che non parlano di immobili, quindi di architettura, ma di contenuto. Non parlano dell’individuo, ma di comunità. Insomma, la città del futuro non è fatta di grattacieli o sfere, ma di senso. Ecco perché, tornando alla sua domanda, credo che ci sia un consenso pressoché unanime intorno al fatto che una buona città è una città inclusiva. La visione è chiara, il tema è industriale. Capire come farlo, avere una strategia condivisa».

Soffermiamoci sulla condivisione allora. Nel libro Fulvio Irace scrive che «solo il successo di una ritrovata intesa tra pubblico e privato può contribuire a un’evoluzione sostenibile sia economica sia culturale». Ma le partnership escono indebolite dopo le indagini della Procura di Milano e quindi il blocco di numerosi cantieri?

«Condivido pienamente il pensiero di Irace. È nella collaborazione tra pubblico e privato che c’è la chiave per l’inclusività. Questo è il vero punto di snodo. Per il resto, non credo che ne escano indebolite perché restano condizione necessaria e irrinunciabile. Quello che sta accadendo non cambia questa condizione ma ha un elemento delicato di ritardo e di distrazione dei capitali».

Quali sono i rischi che vede?

«Lavoriamo con molti investitori internazionali e una delle grandi critiche che l’Italia riceve è che il sistema di regole cambia spesso nel tempo. Un mercato dotato di un’infrastruttura applicativa delle norme non chiara è il primo elemento di ostacolo e barriera agli investimenti. Visto dall’estero non si ha la visione dei dettagli ma si percepisce che il soggetto pubblico non esprime regole certe. Questo è il punto vero. Per questo spero che presto la dinamica si risolva».

Chi scriverà il futuro della città?

«Credo che la visione della città debba derivare dal soggetto pubblico. È importante rispettare i ruoli. Ciò detto, il privato ha il dovere di contribuire affinché la visione pubblica riceva tutti gli stimoli concreti possibili. Il nostro contributo, per il nostro cinquantesimo, vuole essere quello di mettere sotto i riflettori le università e i giovani. Vogliamo fermarci ad ascoltare loro per immaginare i prossimi cinquant’anni. Sono le loro idee che riempiranno il prossimo capitolo».