IVANO ZOPPI (Fondazione Carolina)
Milano

Garufi, l’odio social e gli interrogativi aperti: perché giudichiamo le vite degli altri come giudici di un talent? E se capitasse a te?

Sesto San Giovanni, indagine sul suicidio di Davide “Alexandra” Garufi. La riflessione sugli hater della Fondazione Carolina, nata dopo il dramma di Carolina Picchio nel 2013: “Dove finisce la libertà di espressione? I ragazzi non riescono a reggere la pressione perché non hanno le risorse per resistere”

Davide Garufi su TikTok

Davide Garufi su TikTok

La Procura di Monza indaga per omessa custodia per la pistola con cui si è ucciso mercoledì Davide Garufi, 21 anni, il tiktoker di Sesto San Giovanni che aveva raccontato online il suo percorso alla scoperta della sua identità di genere. L'arma appartiene al padre della vittima, guardia giurata per un istituto di vigilanza privata, che sembra fosse solito lasciarla in uno zainetto nell'abitazione al ritorno dal lavoro. La magistratura monzese, coordinata dal procuratore Claudio Gittardi, ha poi aperto un fascicolo penale per istigazione al suicidio come atto dovuto per sottoporre il giovane all'autopsia, che sarà utile a chiarire se il giovane avesse assunto indebitamente farmaci, come secondo gli inquirenti aveva già fatto una volta in passato.

Qui la riflessione di Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina.

Dallo schermo allo specchio

A valle dell’ultima tragedia che riporta alle cronache il complesso rapporto tra giovani e web, la domanda che dobbiamo farci è: che cosa ci spinge ad esporci in questo modo sui social? A dare la possibilità a chiunque di poterci conoscere commentare, giudicare?

Forse è proprio qui la risposta: abbiamo bisogno davvero di questo, del giudizio degli altri. E forse, all’inizio, non ci importa che sia positivo o negativo, quello di cui abbiamo veramente bisogno è essere guardati, visti, “condivisi”. Vogliamo la conferma della nostra esistenza. Poi quando il peso dei giudizi negativi ci risveglia, ci riporta alla realtà, è allora, in quel momento, che non riusciamo più a reggere la pressione perché non abbiamo le risorse per resistere.

Essere visti, oggi, passa purtroppo per la rete, unico spazio nel quale troppo spesso questo risulta possibile: ricevere una conferma di quello che pensiamo di noi stessi, di quello che gli altri pensano di noi, se davvero è “giusto” quello che vogliamo per le nostre vite.

Siamo così terribilmente attaccati a questo principio, talmente impauriti dal poterci confrontare con qualcuno nella realtà, da rifugiarci in una quotidianità che pensiamo di poter gestire, ma che in realtà ci intrappola in una Rete ben più subdola di quella digitale. Un succedaneo dei rapporti umani, fatto di chiacchiericcio, petulanza e accidia, che promette di accoglierci come una pianura, ma che si rivela una palude per le nostre emozioni.

La realtà è che in qualunque ambito o dimensione vogliamo destinare i nostri sogni, aspettative, entusiasmi, bisogna prima costruire le giuste fondamenta. Rispetto, empatia e valori come lealtà, inclusione, trasparenza e sincerità sono presupposti fondamentali per accogliere le fragilità, le paure e le speranze che accompagnano qualsiasi viaggio. Il viaggio alla scoperta di noi stessi, dei nostri sogni o nella nostra identità. Come nel caso di questo ragazzo lombardo, che ha avuto solo la colpa di esporsi.

Ecco, abbiamo capito ancora una volta che raccontarsi, aprirsi a agli altri, in questo mondo rappresenta un rischio, un errore. Dobbiamo accettarlo, insegnando ai nostri ragazzi l’importanza di proteggersi, di gestire la propria fragilità come una gemma preziosa, che non possiamo affidare al primo follower di turno. Eppure in questa triste consapevolezza emerge una considerazione. E tutti coloro che quella gemma la infangano, la svalutano e la graffiano? Davvero dobbiamo accettare tutto questo? Fino a che punto la mia libertà di “espressione” si può spingere? Da quale pulpito ci arroghiamo il diritto di rapportarci agli altri come fossimo i giudici di un talent televisivo?

Nel corso della storia innumerevoli filosofi, sociologi e scrittori hanno dedicato anni di impegno, opere e ricerche per rispondere a queste domande. Oggi basterebbe fermarsi un attimo, staccare il dito dalla tastiera e spostare lo sguardo: dallo schermo allo specchio. E se capitasse a te?

Carolina Picchio, la studentessa 14enne che il 5 gennaio 2013 si suicidò perché esasperata dalle offese sui socia
Carolina Picchio, la studentessa 14enne che il 5 gennaio 2013 si suicidò perché esasperata dalle offese sui socia

Fondazione Carolina raccoglie il messaggio di una ragazza che non c’è più, Carolina Picchio (che si è tolta la vita nel gennaio 2013) entrata nel cuore delle nuove generazioni. La sua storia, diventata simbolica, ricorda tutta la bellezza, l’amore e la gioia di vivere che possiamo compromettere con un solo clic. La Fondazione raccoglie la sfida di Paolo Picchio, il papà di “Caro”, per aiutare i ragazzi che, sempre più in tenera età, si fanno del male tra loro usando la rete in maniera distorta e inconsapevole. Un supporto alle famiglie e a tutta la comunità; per garantire a genitori, educatori e tutti i coloro che hanno responsabilità educative il diritto a: cura, recupero e benessere delle nuove generazioni.