
Il testa a testa tra i due attaccanti
Milano, 29 gennaio 2021 - "Ho sbagliato, ho provocato, ho esagerato anche perché ho danneggiato la mia squadra. Ma dire che sono razzista non lo posso accettare... forse si scordano che mi sono sentito dare dello "zingaro" anche nell'ultimo derby, quando ancora erano ammessi mille spettatori... ma allora nessuno disse nulla, come nulla è stato detto per anni, quando ricevevo offese sui campi di tutta Europa". Lo sfogo di Zlatan Ibrahimovic davanti ai compagni di squadra martedì notte dopo il derby di coppa è andato più o meno così, racconta chi si è trovato di fronte un giocatore pentito, un leader ferito, consapevole di aver rovinato la serata sua e soprattutto della squadra. Ha sbagliato Zlatan. E lo sa bene. Doveva far da paciere e ha finito per spaccare tutto. Così come ha sbagliato Lukaku, reagendo in maniera spropositata ad un fallo di gioco di Romagnoli e di fatto innescando reazioni a catena. Ma adesso, prima ancora che il Giudice dica la sua, c'è voglia solo di dimenticare. Ibra ha chiesto scusa a società e compagni, e per questo non verrà multato. E sui "social" ha voluto dire la sua. Romelu invece tace, così gli è stato suggerito da qualche dirigente esperto. E l'Inter non chiede il ricorso alla prova tv, ben consapevole del rischio che anche la squalifica del belga (una giornata) potrebbe avere in quel caso dimensioni maggiori.

"La mia unica religione è quella del rispetto per gli altri. Per tutte le fedi. Nel campo di calcio siamo tutti uguali. Un campo, due porte, vediamo chi segna di più. Puoi essere nel cortile o a San Siro", ha sempre detto. Non a caso per la Uefa è stato uno dei simboli mediatici nella campagna antirazzismo e per diffondere i valori di inclusione. Romelu invece ha reagito, in maniera forte e senza autocontrollo in una situazione in cui forse in tanti avrebbero perso la testa: perché guai a toccare la mamma, in questo caso la signora Adolphine, cui il calciatore nerazzurro è legatissimo anche a causa di un'infanzia molto complicata. Lui, ragazzone mite e sensibile, che aveva e ha nella madre l'unico punto di riferimento. Quella mamma che allungava il latte con l’acqua per farlo mangiare, che, diabetica, non aveva i soldi per pagarsi l’insulina, e a cui il piccolo Romelu fece la promessa solenne del riscatto: "Mamma, vedrai che cambierà. Giocherò a calcio nell’Anderlecht. Vivremo bene. Non dovrai più preoccuparti".
Era una bambino Romelu. Cresciuto velocemente. E ancora oggi la mamma è tutto, è la sua vita. A lei dedica i gol facendo il segno della A con le dita ed è lei che, da quando sono lontani, chiama di continuo: "Parliamo 4-5 volte al giorno, anche di niente. A volte guardiamo la tv e ridiamo", raccontava il belga. Per questo martedì Lukaku era prima arrabbiato e poi triste. Quella frase di Ibra l’ha interpretata e vissuta come l'insulto peggiore. E così l'inguardabile rissa di San Siro per moralisti e non, si è trasformata in argomento di discussione su cui sguazzare e che rischia però di andare fuori binario. Perché stiamo parlando di un calciatore che si è comportato da provocatore e di un altro che ha reagito in maniera esagitata. Sin troppo. Si è passati in pochi secondi dalle offese di Ibra alle presunte minacce di Lukaku, avendo il belga urlato al rivale frasi del tenore "ti sparo in testa" o "fuck your wife". Il tutto sotto gli occhi degli arbitri e con le orecchie degli ispettori della Procura federale che facevano finta di non sentire.

Non per la razza o il colore della pelle. Ibrahimovic riconosce un unico linguaggio universale, quello dei piedi. Ecco perché mentre qualcuno chiedeva la sua immediata cacciata anche da Sanremo, sui social arrivava il post dello svedese: «Non c’è spazio per il razzismo nel mondo di Zlatan». Quel mondo, sia chiaro, dove l'onnipotente Zlatan non fa mistero di sentirsi un Dio ("Siamo tutti giocatori, alcuni migliori di altri» può suonare come l'ennesima provocazione") ma questo è un altro discorso. Fa parte del modo di essere di Ibra, che pone il suo ego al centro dell'universo come se tutto dipendesse da lui, confortato anche dai ruffiani di corte e dai titoloni dei giornali. Sicuramente, per tornare ai nostri due "eroi", Ibra si considerava migliore di Lukaku nella stagione 2017-2018 quando al giovane Romelu appena arrivato allo United propose la ben nota scommessa del "ti do 50 sterline per ogni stop giusto". Nacque un rapporto di amore-odio fra i due. Da allora non si sono mai sopportati. Ogni occasione era buona per punzecchiarsi, però Romelu ha sempre seguito Zlatan sul campo. Cercando di strappargli qualche segreto. Poi, a parole, si detestavano. "Milano ha un nuovo re", disse Lukaku ai primi gol della sua avventura in maglia nerazzurra, «Milano non ha re, ha un Dio», replicò lo svedese dopo la doppietta nel derby d'andata con i toni del maestrino provocatore. Perché Zlatan è così. E' quello generoso che gioca anche se ha dolore, ed è quello che vede la sua squadra in difficoltà (Lukaku stava litigando con Romagnoli e Saelemaekers) e colpisce il rivale proprio dove sa di potergli fare più male. Sugli affetti più cari. Una mascalzonata. Tra l'altro ben conoscendo l'aneddoto che il presidente dell’Everton aveva raccontato agli azionisti anni prima, cioè che Lukaku non aveva rinnovato il contratto perché «in un rito voodoo della madre una voce aveva detto di firmare per il Chelsea». Da qui al razzismo ce ne passa. Sia chiaro. Così come la richiesta di escludere Ibra da Sanremo non sembra la migliore delle proposte in un momento in cui il Paese ha cose più serie di cui occuparsi. Intanto, la squalifica (pesante) raffredderebbe i bollori dei contendenti. E poi sarebbe più saggio, sicuramente opportuno, che i due bomber, idoli dei ragazzini e icone del nostro calcio, decidessero di mettere da parte rancori e si stringessero la mano prima del prossimo derby (21 febbraio) magari sorridendo. E pure con qualche battuta. Per dare un calcio al passato, alle polemiche e ai veri razzisti. Quelli che predicano bene e razzolano male, figli dell'intellighentia culturale italiana che prolifera nelle redazioni, sui banchi in Parlamento, nei tribunali, nei salotti che contano. E di cui ne faremmo volentieri a meno.