ALESSANDRO SALEMI
Cronaca

Carcere di Monza, viaggio nella fabbrica dei detenuti: dalle borse in pelle ai rosari con le barche dei profughi

Su 700 ospiti nella casa circondariale di Monza, la metà è impegnata in attività lavorative. C’è chi si occupa della mensa e delle pulizie dell’istituto e chi è assunto da ditte esterne

LAVORO CARCERE

Molti sono poveri e hanno bisogno di guadagnare per mantenere la propria famiglia

La casa circondariale di Monza non è solo l’istituto di detenzione che ospita circa 700 detenuti a fronte di 408 posti di capienza massima, ma è anche un laboratorio di speranza, una “fabbrica“ di lavoro, con tante sfaccettature e diramazioni, nonostante i limiti del caso. Dirigenti, operatori carcerari, rappresentanti delle istituzioni politiche, detenuti, sembrano tutti convenire sul fatto che il lavoro sia il primo antidoto alla vita dura del carcere e soprattutto la soluzione migliore per evitare di tornarci.

“Stiamo cercando di incrementare sempre più le attività lavorative interne, cioè alle dipendenze dell’istituto penitenziario e anche quelle esterne, alle dipendenze delle imprese, puntando a trovare nuovi accordi con gli imprenditori – chiarisce la direttrice del carcere di Monza, Cosima Buccoliero –. Il lavoro permette ai detenuti di emanciparsi a livello sia economico sia morale. Il nostro è un carcere dove i detenuti sono poveri e hanno oggettivo bisogno di lavorare per avere una fonte di sostentamento”. L’istituto penitenziario, con una crescita costante nel tempo, è arrivato a occupare circa la metà dei detenuti in attività di lavoro, formazione o studio.

Un risultato significativo, considerando che in tutto si parla di circa 350 persone, seppur l’altra faccia della medaglia dica che un’altra metà è inoccupata (una buona parte, fatta da circa 200 persone, non è nemmeno occupabile perché in stato di patologia mentale). Dalle mani dei detenuti escono prodotti anche pregevoli: borse in pelle, valigette da scuola, prodotti di cancelleria confezionati. A dare loro lavoro sono la cooperativa Pandora, che li impiega nell’assemblaggio di articoli di cartoleria della Balmar2000, come valigette da educazione artistica e tecnica, astucci, copertine per quaderni e buste in materiale plastico di alta qualità; l’azienda Mivan di Seregno per la minuteria metallica tra bulloni, ganci e componenti per l’assemblaggio; la cooperativa 1 Out per servizi di digitalizzazione di documenti cartacei e per la pulitura di documenti, libri, disegni, fotografie da muffe, funghi e polvere; la cooperativa Zerografica di tipografia, che per i detenuti allestisce un laboratorio di assemblaggio e confezionamento conto terzi di prodotti di cancelleria e cartotecnica. E infine la cooperativa sartoriale Alice, per attività di pulitura e cucitura di pelletteria per la produzione in conto terzi di borse da donna, borse da viaggio e articoli come portachiavi, agende, beauty case. In tutto sono una cinquantina gli ospiti della casa circondariale che lavorano per le ditte internamente al carcere e una trentina coloro che vengono accompagnati per lavorare all’esterno.

I lavoratori interni, invece, assunti direttamente dall’amministrazione penitenziaria, sono 210 e si occupano di cucina, pulizia degli ambienti e giardinaggio. Almeno un’altra cinquantina mediamente segue corsi di formazione interni, proposti dalla casa circondariale, da Regione Lombardia, Cpia o Comune di Monza (soprattutto di ristorazione, barbering e giardinaggio), e due costanti sono tenuti dall’Ipssec Olivetti di Monza per i lavori alberghieri (cucina, sala), e dall’Iis Meroni di Lissone per la falegnameria. Il carcere dispone, infatti, anche di una falegnameria attrezzata con macchine professionali, dove oltre ai corsi del Meroni, i detenuti producono oggetti religiosi, come i rosari, con il legno delle barche dei migranti del Mediterraneo arenate a Lampedusa: un’iniziativa pensata e coordinata dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Altri cento detenuti poi, sono impegnati nello studio, chi semplicemente per conseguire una certificazione di italiano, chi per arrivare a un titolo di studio. Spesso, però, chi intraprende un percorso di studio, lascia, preferendo il lavoro, proprio per la condizione di povertà.