DARIO CRIPPA
Cronaca

Giacomone, la partita a carte e il Diavolo Una leggenda brianzola alla Veglia di Pasqua

Per Storie di Brianza un racconto tramandato nelle cascine del territorio e raccontato nella Settimana Santa per convincere ad andare a messa

Monza, 6 aprile 2021 Girava un’antica storia nelle cascine brianzole sotto Pasqua. Tramandata di generazione in generazione, narrava di osterie, messe solenni e… diavoli. Proviamo a ricostruirla. Una fitta e quasi impalpabile nebbiolina indugiava sulla porta dell’osteria e i primi pallidi raggi di sole facevano brillare le goccioline di rugiada. Giacomo si alzò solo in quel momento dal tavolo al quale era seduto dalla sera prima. I suoi compari se ne erano già andati da un pezzo ma lui aveva i riflessi lenti. A 19 anni avrebbe dovuto essere più scattante, ma i suoi cento e passa chili e la testa appesantita da fumo e vino da quattro soldi non glielo consentivano. Raccolse il mazzo di carte, rassettò calzoni e giaccone e uscì pure lui. Sua madre lo avrebbe accolto come sempre, strabuzzando gli occhi al cielo. "Giacomone!" perché così lo chiamavano per la sua stazza. "Giacomone! Ascoltami, non te lo chiedo per tua madre o per la memoria del tuo povero papà… T’el dumandi , te le domando per il Signore nostro Iddio! Giocare a carte in quel postaccio è peccato. Promettimi che almeno sabato, per la resurrezione di nostro Signore, verrai alla messa solenne. È Pasqua, non dimenticarlo: Dio ti vede!".

A Giacomone in realtà interessava poco. Non che non credesse in Dio, ma preferiva giocare a briscola e tressette con gli amici. E aveva iniziato a marinare Vespri e Rosari, poi le messe. In chiesa non lo si vedeva quasi più, nemmeno alle feste comandate. A Pasqua, però, non se la sarebbe sentita neppure lui di mancare. Non fosse altro che per timore. A sentire i vecchi, a chi non fosse andato a prendere la comunione quella sera… beh, insomma, non aveva cuore a immaginare cosa sarebbe potuto accadere. Quel sabato santo, però, Giacomone pensò che una partitina, prima che calassero le tenebre, avrebbe potuto permettersela. Una sola e un bicchierino in compagnia, che faceva tanto festa. Poi sarebbe corso alla chiesetta del paese, dove la gente del villaggio era stata battezzata, si era sposata e ci aveva fatto pure il funerale. Quando nel tardo pomeriggio Giacomone varcò la soglia dell’osteria, era troppo eccitato per guardarsi attorno. All’inizio non notò il forestiero che sedeva da solo a un tavolo. Anzi, a dirla tutta, nessuno sembrava averlo visto entrare. Quando stava per incominciare la partita, Rinaldo, che era sempre stato un po’ un pauroso e da quando era sposato non pareva più lo stesso, si alzò come di soprassalto. "Mi spiace, stasera non posso. Ho promesso alla Rosetta che batterò gli zoccoli alla nostra cavalla, l’altra mattina sembrava li stesse per perdere. E poi c’è la messa: ho promesso che non farò tardi. Fra tre mesi nasce la nostra prima creatura". E a nulla valsero rimbrotti, battutacce e scherzi dei suoi compari, Giacomone in testa. Quella sera non avrebbe giocato nessuno, mancava il quarto. "Ci toccherà fare i bravi" scherzò Luigi il mugnaio, patito del tressette. Fu proprio allora che dal tavolo a cui stava seduto in penombra il forestiero si alzò una voce.

"Se permettete, stasera giocherò io con voi. Non son tanto bravo alle carte, ma una partita questa notte è… una prelibatezza per intenditori". Stupiti, i tre giocatori – c’era anche Ludovico, pittore (o meglio imbianchino) a tempo perso – si diedero uno sguardo d’intesa e fecero cenno al forestiero che poteva accomodarsi. Se aveva i soldi e non era troppo pratico, c’era da divertirsi. Cominciò la partita. E il forestiero sembrava una persona così divertente da non poter fare a meno della sua compagnia. Arrivarono le dieci di sera e i tre ancora giocavano, avevano tutti vinto qualcosa, il forestiero pareva proprio un allocco. Alle dieci e trenta, però, Luigi fece cenno che doveva abbandonare e dietro, di lui, un po’ inquieto, anche Ludovico il pittore. Mancava poco alla messa e a casa lo si reclamava. Rimaneva solo Giacomone, incollato alla sedia. "Non preoccuparti, possiamo fare anche da soli". Giacomone si fece convincere. E poi, il forestiero perdeva e Giacomone sentiva che in tasca gli sarebbe finito un bel gruzzoletto.

Quando scoccò la mezzanotte, quasi non udì le campane. Aveva occhi solo per le carte, i soldi che si cumulavano davanti a lui e quel forestiero col viso sempre in ombra che rideva, rideva a ogni sua battuta com e se non ne avesse mai sentite di così divertenti. Dovevano essere ormai le due quando Giacomone, i riflessi allentati, si lasciò sfuggire una carta, che gli cadde sotto il tavolo. Non appena si chinò a raccoglierla, gli corse un brivido lungo la schiena. No. Non poteva essere. Eppure, quando si era chinato, senza volere lo sguardo era corso alle gambe del suo avversario. Una era accavallata sotto un ampio mantello scuro e non si vedeva, ma all’estremità dell’altra non c’era un piede. C’era uno zoccolo scuro, che batteva adagio, ritmicamente. Il forestiero gli aveva sorriso non appena Giacomone si era tirato su guardandolo. «Per stasera ho giocato abbastanza – prese a dire Giacomone  – meglio che torni a casa". Il forestiero non ebbe nulla da dire. Anche a lui sembrava abbastanza per quella sera. Giacomone non perse tempo. Lasciò una moneta sul tavolo dell’oste, che da due ore sembrava non farsi vedere per nessuna ragione al mondo, forse era andato a sonnecchiare. Salutò con gli occhi bassi e si incamminò verso casa. C’erano tre chilometri buoni prima di raggiungere la sua fattoria. Le strade erano buie come la pece e solo la forza dell’abitudine gli avrebbe consentito di non smarrirsi. Mentre camminava, superata una di quelle Madonne votive che si affacciano sulle stradine di campagna, udì un rumore. Come di zoccoli. Come di qualcuno che cavalcasse alle sue spalle. Strano, a quell’ora. Giacomone si guardò alle spalle ma non si vedeva a un palmo dal naso, l’ultimo chiarore era quello del lumino alla Madonnina che aveva appena superato.

Il resto erano nebbia e oscurità. E ancora quel rumore di zoccoli che sembrava inseguirlo. Cloppete, cloppete, cloppete. Giacomone provò ad allungare il passo, ma era inutile. Poi rallentò sino quasi a fermarsi, impietrito dal terrore. Oltre agli zoccoli, si udiva anche una voce, fonda e terribile.

"Giacomooonee… Giacomooonee". Cloppete, cloppete. Qualcuno lo stava chiamando. Ma chi? E ancora. "Giacomoonee, Giacomone saaaltami in groppa!". Giacomone si era ormai immobilizzato, paralizzato dal terrore. Poi ci fu solo un bagliore. Nessuno vide nulla, quella notte.

Il mattino successivo, tutti si misero a cercare Giacomone. Dalla locanda l’oste giurava di averlo visto uscire in compagnia di un altro giocatore, un forestiero che nessuno aveva mai incontrato prima. I contadini del villaggio si imbatterono in qualcosa di strano. A poche centinaia di metri dalla Madonnina della Misericordia c’era una chiazza di erba bruciacchiata. Era come se qualcosa l’avesse incenerita, forse qualche vagabondo aveva acceso un falò. O piuttosto, presero a raccontare in paese, era come se una palla di fuoco fosse passata di lì per un attimo, prima di scomparire nel nulla. Di Giacomone non si udì parlare mai più.