CRISTINA BERTOLINI
Cronaca

"Ero un bullo, ora sono un educatore". Daniel si racconta agli studenti

Il Festival della Poesia ha aperto la sua tre giorni con una storia esemplare di caduta e rinascita

"Ero un bullo, ora sono un educatore". Daniel si racconta agli studenti

I giovani e le loro fragilità, fra bullismo, ansia e depressione, dipendenze, difficoltà esistenziali, incomunicabilità in famiglia e assenza di motivazioni. Questi i temi della quarta edizione del Festival della Poesia e delle arti, una tre giorni di eventi da ieri a domani a cura della Casa della Poesia di Monza, presieduta da Antonetta Carrabs.

Ci sono giovani che attraversano l’inferno, ma poi riescono a recuperare i fili della loro vita. Così come è stato per Daniel Zaccaro. La sua storia di caduta e rinascita è diventata unlibro: “Ero un bullo, la vera storia di Daniel Zaccaro“, raccontata ieri dal vivo a 200 studenti del liceo classico Zucchi e dell’Istituto Hensemberger. Daniel è stato più che un bullo, uno sbandato, teppista. Oggi è un educatore della comunità Kayros di Vimodrone, fondata da don Claudio Burgio. "Il mio sogno era fare il calciatore – racconta Daniel – a 10 anni ero nel vivaio dell’Inter. Mio padre mi seguiva, ma anche mi opprimeva. Quando ho fallito, il nostro rapporto si è deteriorato e da lì ho cercato altri modelli nel quartiere di Quarto Oggiaro dove abitavo. Modelli che mi hanno portato a delinquere. Volevo guadagnare tanti soldi, subito. Quindi a 17 anni ho rapinato una banca. Così sono finito in carcere. Prima al Beccaria, poi a San Vittore".

Era considerato un ragazzo perduto, irrecuperabile. A segnare la svolta, l’incontro conuna professoressa di italiano che lo stimola a finire la maturità e poi don Claudio, il cappellano del carcere e l’affidamento alla sua comunità Kayros. Daniel studia, si iscrive all’università, impara il valore dell’educazione, del lavoro, dello studio, il rispetto per se stessi e per gli altri. Si è laureato in Scienze della Formazione all’Università Cattolica di Milano. "La brutalità è indice di povertà di pensiero – dice – È l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. I violenti hanno profondissimi problemi di linguaggio. Quando non sai chiamare il dolore e la rabbia con il loro nome ti scateni così, come un animale. Io l’ho capito e lo voglio spiegare al maggior numero di ragazzi possibile. Riesce a recuperare in minor tempo chi resta lucido e non si fa le canne".