DARIO CRIPPA
Cronaca

Gli angeli della Turchia "Un disastro immane In mezzo alle macerie alla ricerca di vittime"

La missione del vigile del fuoco di Monza Mario Scimone dopo il terremoto che ha provocato oltre cinquantamila morti: ho scavato e coordinato i soccorsi con l’unità internazionale Usar.

Gli angeli della Turchia "Un disastro immane In mezzo alle macerie alla ricerca di vittime"

di Dario Crippa

"Quello che ha fatto più impressione e ti tocca dentro sono state le dimensioni. Ero stato al crollo del Ponte Morandi a Genova, ero intervenuto per l’esplosione dell’autocisterna sull’Autostrada a Bologna, avevo lavorato al terremoto di Amatrice. Grandi tragedie, centinaia di morti, ma in Turchia le proporzioni sono state immani. Gli ultimi conteggi parlano di oltre 50mila morti".

Un ecatombe. Nella vita ci sono persone che a volte fanno qualcosa di straordinario, di eccezionale, può capitare che salvino una o più vite umane. E li chiamano eroi. Ci sono però anche persone per cui nulla è eccezionale, perché loro ci sono sempre. È il loro lavoro. E quando accade un disastro, una calamità, una catastrofe come un terremoto, vanno a cercare e a scavare. Sono vigili del fuoco speciali: la loro unità si chiama Usar, “Urban and search rescue”. Una sola missione: salvare più vite possibili. Appartengono a un corpo internazionale di cui fanno parte persone come Mario Scimone da Concorezzo (qualifica vigile coordinatore), 40 anni, moglie e due bambine piccole, dal 2009 in servizio al Comando provinciale di Monza, dove aveva mosso i primi passi già nel 2005. E reduce ora da una missione in uno degli scenari più terribili degli ultimi tempi: quello del terremoto in Turchia.

Se lo aspettava?

"All’Usar vieni addestrato per intervenire nelle operazioni di soccorso in mezzo alle macerie, e sai che devi essere sempre pronto a partire. E così, appena si è avuta notizia del terremoto in Turchia, ho cominciato ad attendere la chiamata. Siamo sempre pronti a partire, abbiamo passaporti e vaccinazioni. Il 5 febbraio c’è stato il terremoto, il 6 sono partiti i primi colleghi dall’Italia. La settimana dopo c’è stato l’avvicendamento ed è toccato a noi".

Organizzazione quasi militare.

"Siamo partiti in 48 da Lazio, Veneto, Piemonte, Toscana e Lombardia. In 11 dalle province di Milano, Bergamo, Pavia e io da Monza. Insieme al personale sanitario messo a disposizione da Areu e alle unità cinofile".

Il viaggio?

"Siamo andati a Pisa e siamo partiti nella tarda serata con due aerei ATR della Guardia di finanza con un volo per la Turchia: atterrati ad Adana, in autobus abbiamo raggiunto il campo base italiano allestito ad Antiochia, vicino allo stadio, nella provincia di Hatay".

Vi siete preparati al peggio?

"Già lungo la strada vedevamo la devastazione, tutti gli edifici crollati. Siamo attrezzati per essere autonomi per 7-10 giorni, dal cibo all’acqua alle tende alle attrezzature per demolire le macerie. Siamo rimasti lì dall’11 al 19 marzo".

Il suo compito?

"Gestire tutto il team di soccorso, anche estero. Lavoravo nella sala operativa del team Italia, facevo uscire le squadre operative con radio e Gps".

L’esperienza più probante?

"Una palazzina in cui abbiamo recuperato 25 cadaveri, di cui 8 bambini. Purtroppo persone vive, a due settimane dai crolli, era impossibile trovarne. La nostra prima squadra era riuscita a salvarne due, ma erano ancora i primi giorni. Siamo andati all’hotel in cui alloggiava un turista italiano, ovviamente deceduto nel crollo".

È stata dura?

"È stato molto impegnativo, dal punto di vista professionale ed emotivo".

La popolazione?

"Abbiamo avuto da subito contatti con i parenti. Ci aiutavano a capire dove andare a cercare. Sapevano dove avrebbero potuto essere i loro cari. Quando siamo ripartiti si contavano 42mila morti in Turchia e altri 4mila in Siria. Si lavorava a turni, il Team Italia garantiva una presenza h 24".

Come si fa un soccorso?

"Dopo un lavoro di intelligence ascoltando i parenti, innanzitutto partono i cani. Se sentono una presenza e cominciano ad abbaiare, le squadre di penetrazione iniziano a scavare armate di telecamere e geofoni per vedere e ascoltare. Si scava e demolisce. Nella zona in cui operavamo, c’erano soprattutto palazzi molto alti ridotti in macerie, era crollato tutto. Non è stato facile".

Mai avuto paura?

"Non possiamo permettercelo, l’addestramento e l’attrezzatura sono dalla nostra parte, innanzitutto ci occupiamo di puntellare le macerie e mettere in sicurezza per ridurre al minimo il pericolo per i soccorritori. Le squadre di Veneto e Lazio si occupavano soprattutto di scavare, quella lombarda di gestire i soccorsi. Anche se ovviamente è capitato anche al sottoscritto di intervenire e di andare sotto con la penetrazione…".

Cosa l’ha colpita di più?

"La vastità del disastro. Il numero di morti e sfollati. Con la consapevolezza che tante volte non puoi fare più nulla. Non a caso, la Croce Rossa ci fornisce supporto psicologico".

Altrimenti a volte potresti non farcela.

"È così, aver sentito anche dall’Italia la vicinanza di tante persone, ricevere un messaggio da un collega che sa che sei lì aiuta".

Cosa si porta dietro da questa esperienza?

"Dal punto di vista lavorativo tantissimo. E dal punto di vista emotivo ti rendi davvero conto che un secondo può cambiarti la vita. E ti accorgi che a volte non vale la pena arrabbiarsi per molte sciocchezze della vita quotidiana".