Monza, 14 novembre 2024 . La pensione non fa per lui. E così Lodovico Piazza, insegnante di italiano per mestiere e per passione, dopo 42 anni in cattedra tra Collegio Bianconi, Istituto Olivetti e liceo linguistico Mosè Bianchi ha scelto di restare ancora in mezzo ai ragazzi come insegnante volontario, per i migranti minori non accompagnati, ospiti della Cooperativa Novo Millennio di Monza.
Segue individualmente ragazzi tra i 16 e i 17 anni che devono conseguire il diploma di scuola media. "
A volte – racconta il professore – mi capitano persone che non hanno mai visto l’alfabeto e non sono mai andati a scuola. In quei casi si parte dai tradizionali cartoni di prima elementare con le lettere dell’alfabeto “A come Ape e B come bandiera“. Altri sanno leggere e scrivere. Con qualcuno si arriva a fare analisi grammaticale e qualche nozione di analisi logica e qualcuno ipotizza pure un percorso universitario". Con i francofoni interagisce bene, altrimenti la tecnologia viene in aiuto e si comunica scrivendo su Google traduttore con l’inglese o con l’arabo. C’è chi ha attraversato il deserto, chi arriva dalla rotta balcanica, attraverso Turchia, Grecia e Romania. Un ragazzo racconta di aver impiegato due anni ad arrivare in Italia e nel frattempo, a 16 anni, ha già lavorato come muratore in Romania. Alcuni hanno una famiglia rimasta nel Paese d’origine, ma sono scappati da una vita che sarebbe stata segnata e immutabile. Quindi per tutti la scuola è ancora quell’ascensore sociale che era per gli italiani negli anni ‘60. Imparare l’italiano significa trovare lavoro, poter parlare di sé e dimostrare in pratica "chi sono Io e cosa so fare".
Si scoprono i talenti: qualcuno è un ottimo disegnatore, qualcuno trova lavoro nell’edilizia grazie alla sua manualità. La scuola è una scelta, sia da parte del professore-volontario sia per lo studente. Quindi il professor Piazza racconta di non aver trovato in questo percorso studenti sfrontati e strafottenti. Ricorda gli anni ‘70 e le contestazioni: "Forse eravamo più sfrontati e irriverenti noi all’epoca. Certo, non tutti hanno le migliori intenzioni: qualcuno prova a tornare sui banchi, ma poi sparisce e si perde. Alcuni non hanno famiglia, si vede che vogliono costruirsi una vita. Le aspirazioni – racconta il prof – sono simili a quelle dei nostri ragazzi italiani: realizzare se stessi e trovare un lavoro. Forse per gli stranieri la bilancia pesa più sull’urgenza di trovare lavoro". Non è un “mestiere“ facile, ma "ero appena andato in pensione e per caso mi è stato chiesto se volevo fare il volontario con i ragazzi immigrati. Non ho esitato un istante, ho detto subito sì".
Il segreto per intercettarli? "Nel rapporto uno a uno, loro capiscono se hai attenzione verso di loro. Bisogna essere severi nel mettere impegno per fare bene quello che si sta facendo. Solo così si può e si deve chiedere a loro lo stesso impegno". A volte ci si chiede se, dopo che sono stati accolti, i giovani immigrati si sentano davvero italiani: "Mi è capitato un allievo filippino super felice di poter finalmente prendere la cittadinanza italiana. Ma in generale non conviene metterli alle strette, chiedendo se si sentono più italiani o più egiziani o marocchini. La domanda stimola la reazione. In realtà la vita è fatta di sfumature, di situazioni variegate, dove identità e rispetto delle regole si intrecciano. L’integrazione si fa nella pratica quotidiana".