Un suicidio e dieci tentativi, 411 posti, 716 detenuti: numeri che raccontano il sovraffollamento del carcere di Monza. Ieri, la visita della più numerosa delegazioni di attivisti e amministratori che sia mai entrata nelle sue celle, "per toccare con mano cosa voglia dire viverci", dice Roberto Rampi, della segreteria di “Nessuno tocchi Caino“, ex senatore del Pd, in prima linea per la causa dei detenuti. Con lui Sergio D’Elia alla guida del gruppo. Per tutti, "un pugno allo stomaco" fra i tentativi di umanizzare una struttura che non riesce a garantire i diritti costituzionali e la speranza che nasce dall’immagine di papa Francesco che "apre la porta santa del Giubileo a Rebibbia. Il Papa ha scelto l’uomo cattivo – dice D’elia –, un invito alla riflessione per tutti".
Nel pomeriggio a Concorezzo, alla sede dell’associazione Minerva, una riflessione pubblica sull’esperienza. In questo “inferno in terra“ si consumano ogni giorno storie di dolore. "Il teatro e la palestra sono inagibili – ricorda Rampi –, in alcune celle convivono in tre, ma la terza branda va aggiunta di sera, altrimenti i reclusi non ci stanno". Un paio di loro sono diventati padri in carcere, hanno figli di 12 e 4 anni con i quali non sono mai stati un giorno e da gennaio "si vedranno tagliare la quarta telefonata settimanale di 10 minuti, le nuove norme ne impongono al massimo tre". Scampoli di una quotidianità sempre più critica che coinvolge il personale, "sempre sottostimato" e dirigenti, "ci sono anche tanti Abele che condividono con Caino le difficoltà", sottolinea D’Elia.
Fra chi "non dovrebbero essere rinchiuso qui", le 398 persone con problemi di droga, i 298 con problemi psichiatrici e i 233 in attesa di giudizio, per i quali cioè non c’è una sentenza di colpevolezza. "Numeri che ci dicono che risolvere il problema delle celle pollaio sarebbe facile", sottolinea Vincenzo Di Paolo, consigliere provinciale dem. "Il nostro scopo – ancora Rampi – è aiutare sempre più persone a varcare la soglia del mondo carcerario". La visita "può aiutare a cambiare il proprio punto di vista su chi sta dentro. Spesso alla base di tutto c’è già il fallimento della società che non ha saputo offrire opportunità a chi finisce per sbagliare. Si sconta una pena e poi si esce, ma in molti casi fuori non ci sono punti di riferimento e si torna dentro".