DARIO CRIPPA
Cronaca

Luigi Montrasio, il falegname deportato per uno scambio di persona a Mauthausen

La tragica vicenda del padre di famiglia di Sant’Albino ricostruita dal nipote a 77 anni di distanza verrà prossimamente stampata

Monza, 31 ottobre 2021 - Era soltanto un falegname. Luigi Montrasio, classe 1909, ci sapeva fare con le mani e si era guadagnato un posto da modellista in una fabbrica importante, la Caproni Aeronautica di Sesto San Giovanni. Parsimonioso, la raggiungeva in bicicletta pur di risparmiare quattrini con cui sfamare la sua famiglia. Erano gli anni del Fascismo e della Guerra, erano anni duri. In piena sbornia coloniale, anche a lui era toccato prestare servizio per cinque mesi in Libia, con il pensiero di aver lasciato sola la moglie incinta. Al suo ritorno, ad attenderlo c’erano la sua amata Adele e un bimbo, Renato. Quando la moglie era rimasta incinta una seconda volta, Luigi aveva deciso di trasferirsi in una casa di corte del quartiere Sant’Albino, in via Marco d’Agrate, alla curt di Pasun . Qui la suocera aveva un piccolo negozio di ortofrutta e avrebbe potuto aiutare a badare ai bambini, dato che con due bocche in più da sfamare anche alla moglie era toccato andare a lavorare come operaia. I venti della guerra stavano però soffiando in maniera inquietante e il 24 febbraio 1943 Luigi viene richiamato alle armi nell’8° Reggimento Fanteria “Cuneo”. Le cose in Italia stanno precipitando. Cade il Fascismo, nasce la Repubblica Sociale di Salò. E l’8 settembre c’è l’armistizio. Due giorni prima, Egidia, la terza figlia, di poco più di un anno, muore di bronchite. Luigi ottiene una licenza di 10 giorni per lutto e torna a casa. Ma l’esercito è ormai allo sbando e Luigi decide di non fare rientro nel suo reparto. Si ritroverà, a sua insaputa, schedato nella lista dei Partigiani compilata dai Repubblichini. Luigi non rientra nemmeno al lavoro alla fabbrica Caproni per restare vicino alla moglie provata dal lutto e cerca di mantenere i propri cari con lavoretti da falegname nella sua abitazione trasformata in laboratorio. Il 1° marzo è un’altra data importante: il Comitato di liberazione nazionale indice infatti uno sciopero generale per protestare contro il regime Nazista che ha occupato il Nord Italia. Si fermano le fabbriche,ma la repressione sarà durissima. Le SS e i Repubblichini vanno a cercare gli operai che avevano partecipato allo sciopero per inviarli ai campi di lavoro in Germania: obiettivo terrorizzare la popolazione e scoraggiare altre proteste. Con pressioni e minacce viene ordinato ai dirigenti delle aziende di stilare elenchi di operai da deportare in Germania. Si arriva all’11 marzo 1944. Luigi lavora in casa. Memore degli anni alla Caproni, ha appena costruito un aereo di legno a rotelle giocattolo per i bambini della Corte, è lungo un paio di metri e i marmocchi si divertono un mondo a portarlo a spasso in cortile. Fra i suoi lavoretti da falegname, sta anche costruendo una scala a pioli, gliel’ha commissionata un vicino, il signor Ludovico Sala. Sono le 21 e d’improvviso si sente un grosso camion militare fermarsi davanti alla Corte.

Cala il silenzio, una vicina si affaccia a guardare impaurita. "Abita qui Montrasio Luigi?" è la domanda stentorea di un ufficiale. Che poi bussa con forza alla porta e intima di aprire. Il piccolo Renato ricorderà per sempre quel momento. Entrano quattro militari fascisti guidati da un giovane ufficiale delle SS. Chiedono la generalità del papà, ma un dato non corrisponde: il “Luigi Montrasio” che cercano ha un padre con un nome diverso. Quello “giusto” – si scoprirà – abita a 100 metri di distanza ed è uno degli operai che avevano partecipato allo sciopero. Luigi si sgola tentando di spiegare che si tratta di un equivoco, lui non lavora nemmeno più in fabbrica, anzi per dimostrarlo mostra la scala a pioli a cui sta lavorando in quel periodo nella sua abitazione. Il giovane ufficiale però non ci vuole sentire: "Sono venuto a prendere un Luigi Montrasio e un Luigi Montrasio ora viene con me". "Mi aggrappai piangendo alle gambe di mio padre, quasi immobilizzandolo" è il ricordo del figlio. Il Tedesco lo spedisce con un calcio sotto il tavolo. "Avevo solo 7 anni, la mia sorellina 5 e da quel giorno non vidi più mio padre". Quella notte vengono rastrellati 17 uomini, portati la mattina successiva alla caserma dei carabinieri di via Volturno. La moglie e il cugino con un sidecar provano ad andarci. Intercettano Luigi mentre viene caricato su una corriera. "Adele, non sono io, è tutto un errore, hanno sbagliato persona, mi portano a Milano" riesce a dire prima di essere trascinato via. Saranno le ultime parole che la moglie udrà pronunciare dal marito. I prigionieri vengono portati a San Vittore, sono tutti operai accusati di aver partecipato allo sciopero e di “sabotaggio alla Rsi”. Rinchiusi in un centinaio, solo un pagliericcio per dormire e un secchio per fare i bisogni. Interrogati e picchiati, la sera del 13 marzo vengono tutti stipati su autocarri chiusi, portati in un centro di smistamento a Bergamo, infine caricati sui treni diretti a Mauthausen. La moglie fa un ultimo disperato tentativo e si reca alla stazione a implorare l’ufficiale spiegando che si è trattato di un errore. Ma la risposta è che è ormai troppo tardi: se si si è trattato di un errore, tornerà presto. Luigi Montrasio invece non tornerà più. Registrato col numero di matricola 59001, morirà al campo Gusen I, il 19 maggio 1944. I registri tedeschi dicono che è stato vittima di un attacco terroristico per via aerea da parte anglo-americana. Non è vero. Luigi Montrasio morì effettivamente quel giorno, ma di un’infezione. Dal racconto di un prigioniero scampato al lager, si sa che venne trovato esanime nella sua baracca con le gambe molto gonfie, morto probabilmente per una grave infezione mal curata che si era procurato ferendosi nella movimentazione dei carrelli per il trasporto delle macerie per costruire il tunnel sotterraneo di Gusen II. Aveva 35 anni. A ricostruire la sua storia è stato di recente Lorenzo Citterio, nipote di Luigi Montrasio. Per anni ne aveva sentito parlare solo a spizzichi, "in casa mi ero sempre scontrato contro un muro", come se ci fosse riserbo a raccontare un dolore così grande… poi la scintilla dopo la morte di Renato nel 2018. "Mi sono imbattuto in alcuni documenti che mio zio custodiva gelosamente. Fra questi un biglietto, che suo padre Luigi aveva gettato dalla finestra del carcere di Bergamo in cui era stato rinchiuso in attesa di essere deportato… Nel biglietto ribadiva a sua moglie che c’era stato uno scambio di persona e la implorava di andare a chiedere aiuto a un diplomatico tedesco". "Da quel momento, annotando brani di conversazione e confrontandoli con i documenti chiesti all’Archivio di Stato, sono riuscito a ricostruire tutta la vicenda. Se non lo avessi fatto non me ne sarei dato pace". E ora? "Mi piacerebbe farne un libro". Lorenzo Citterio fa anche un appello: "Ho trovato alcune notazioni riguardo a un compagno di prigionia di mio zio: si chiamava Giancarlo Moretti ed era di Monza. Mi piacerebbe rintracciare la sua famiglia (scrivere a cito72@hotmail.it )".