"La telefonata mi arrivò in piena notte, alle 4.40. Era il 17 giugno del 1983 e all’altro capo del telefono c’era un uomo che stava sprofondando nell’abisso: ‘Mi devi salvare, mi stanno arrestando... non riesco a capire’ mi disse mentre lo portavano via". L’avvocato Raffaele Della Valle oggi ha 85 anni ma prova ancora un tuffo al cuore a riannodare i fili di quello che sarebbe diventato “il caso Tortora“. All’epoca aveva solo 43 anni ma dal suo studio di Monza si stava già facendo conoscere. Enzo Tortora, noto presentatore e volto televisivo era appena stato arrestato con accuse pesantissime (e inventate): associazione camorristica e traffico di droga. In quel processo si sarebbe giocato il destino di entrambi. Della Valle conosceva già Tortora "eravamo entrambi nel partito liberale e diventammo amici". Fu durissima. "Avevamo tutti contro, il giudice istruttore dipendeva completamente dalle parole del pm. La battaglia per la separazione delle carriere cominciò lì, da Tortora e dal sottoscritto. C’era un completo sbilanciamento, gli voltarono tutti le spalle, ogni giorno in Tv e sui giornali finivano accuse nuove e inventate. Divenne proverbiale una mia frase: ‘gli atti di processo prima che in tribunale vengono depositati in edicola’. Gli avvocati difensori ne venivano a conoscenza solo dopo". Quel processo fu uno spartiacque. "Per primi segnalammo l’assurdo trattamento che veniva riservato ai detenuti, rinchiusi in carceri fatiscenti; per primi mettemmo in dubbio l’attendibilità dei pentiti, che allora a suon di menzogne clamorose orientavano i processi; per primi combattemmo contro l’abuso della carcerazione preventiva. Ponemmo i germi per una riforma della Giustizia che avrebbe dovuto essere profondamente cambiata. Continuano a chiamarmi a parlarne nelle università, il nostro fu un processo per la libertà". Ricorda quel mese di agosto? "Torrido, mi sentivo solo, quella di Tortora fu una Via Crucis in cui avevamo tutti contro a parte i Radicali. Si ritrovò a dover rispondere di accuse inverosimili, un’oscenità che anche un bambino di 5 anni avrebbe riconosciuto. Ero disperato, avevo mandato mia moglie e i miei figli al mare per tenerli al riparo". Finché? "Un giorno decisi di fare una cosa. Erano le 2 del pomeriggio, discesi la scalinata del Tribunale di Milano con le energie al lumicino, ero come una macchina con le gomme a terra e andai poco distante nell’ufficio di quello che era considerato uno dei giornalisti più influenti d’Italia: Enzo Biagi. Non ci conoscevamo ma mi aprì lui stesso la porta e accettò di ascoltarmi. Mi sfogai e gli raccontai tutto, mentre lui mi squadrava con occhi pungenti". Qualche giorno dopo, Biagi pubblicò una lettera aperta al presidente della Repubblica. "Si intitolava ‘E se Tortora avesse ragione?’. Per la prima volta veniva scalfito un muro". Intanto però arrivò la condanna in primo grado a 10 anni di reclusione. "Ci crollò il mondo addosso, volevo lasciare l’avvocatura. La mia arringa era durata 9 ore ma non era servito a nulla". Però non mollò. "Preparai l’Appello, altre 7 ore di arringa, e arrivò l’assoluzione e scoppiai a piangere. Il clima non era più mefitico. In Cassazione i giudici riconobbero l’ingiustizia di cui Tortora era vittima. Ecco, oggi è arrivato il momento anche per Monza di ricordare quello che accadde di quell’uomo, un mio amico, che avrebbe pagato con la vita la sua battaglia (un tumore lo stroncò un anno dopo l’assoluzione, a 59 anni, ndr). Un uomo lasciato solo, tranne che da pochi amici, fra cui Piero Angela... mi sia consentito un commosso ricordo dei miei valorosi colleghi di difesa, il professor Alberto Dall’Ora e l’avvocato Antonio Coppola".
CronacaNel tritacarne dell’ingiustizia. Il ricordo di Raffaele Della Valle: "Salvai un uomo perbene e piansi"