
Amedeo Argiuolo, ex operaio dell'Icmesa
Seveso, 27 novembre 2023 – “All’inizio, l’azienda tentò di minimizzare. Il reparto B era chiuso, e noi ci chiedevamo perché… i responsabili dell’Icmesa dicevano che era solo un piccolo incidente, che era tutto sotto controllo, anzi aveva mandato qualcuno di noi, solo guanti e mascherine, a fare carotaggi: dicevano che avevano mandato tutto ai laboratori di Basilea e ci avrebbero fatto sapere. Secondo loro, bisognava continuare a lavorare".
Qualche giorno dopo però, "quando i cancelli dell’Icmesa cominciarono a essere assediati dai residenti, preoccupati perché i loro animali - conigli e galline - stavano morendo, l’erba si ingialliva e gli orti si seccavano… e ci guardavano con sospetto perché continuavamo ad andare a lavorare, abbiamo preso in mano la situazione: non ne potevamo più di silenzi, bugie, reticenze. E il venerdì abbiamo annunciato che non saremmo più entrati in fabbrica. Che avrebbero dovuto fornirci risposte precise. C’erano anche tanti giornalisti, ormai, alcuni arrivano dall’estero. E solo allora l’azienda ammise che il problema era il triclorofenolo: surriscaldandosi aveva sprigionato diossina. Ancora non sapevamo cosa volesse dire".
Amedeo Argiuolo aveva 29 anni. Arrivava da Lusciano, piccolo centro in provincia di Caserta, e a 18 anni era entrato all’Icmesa come fuochista, diploma di perito elettrotecnico, uno zio che già lavorava nella fabbrica.
Argiuolo era entrato anche nel sindacato, alla Fulc-Cgil (Federazione unitaria lavoratori chimici): i primi consigli di fabbrica. Era appena cominciata la battaglia più grande e spaventosa della sua vita. L’incubo di una nube invisibile ma micidiale: la diossina.
Come andò quel 10 luglio del 1976?
"Era un sabato: non si lavorava e i reparti erano fermi. In fabbrica c’erano solo alcuni operai per la manutenzione. Al lunedì avremmo acceso i forni alle 4 come al solito per la commutazione: in pratica il vapore ad alta pressione (45 atmosfere) della caldaia, alimentando la turbina e quindi un alternatore, avrebbe prodotto entro le 6 l’energia elettrica necessaria alla fabbrica. Poi sarebbero cominciati i tre turni giornalieri fino al sabato mattina".
Qualcosa andò storto.
"Quando si verificò il guasto al reattore del reparto A e ci fu la reazione esotermica con la temperatura che continuava a innalzarsi, alcuni colleghi corsero ad azionare il sistema di raffreddamento: un intervento coraggioso, ma ormai era tardi. Nessuno sapeva cosa sarebbe uscito dallo scarico di sicurezza".
Cosa si lavorava all’Icmesa?
"I lavoratori non lo sapevano davvero, l’azienda si era sempre nascosta dietro il segreto industriale. Da quello che emerse, facevamo prodotti intermedi che venivano poi spediti in Germania e Svizzera. Ne sarebbero usciti farmaci, profumi, cosmetici, pesticidi, diserbanti".
Anche prodotti militari: il triclorofenolo serviva pure per il Napalm. Anche se dopo la fine della guerra in Vietnam quel mercato si era un po’ prosciugato.
"Non era la linea principale, noi - ripeto - facevamo solo prodotti intermedi".
Potenzialmente velenosi, comunque.
"Abbiamo lavorato molto come sindacato, anche con i colleghi della Hoffmann-La Roche all’estero, perché si sapesse cosa veniva prodotto e quali precauzioni prendere. La Roche controllava la Givaudan, proprietaria dell’Icmesa: non poteva non sapere. Scoprimmo che c’erano stati già altri incidenti in Gran Bretagna e in Giappone. Noi lottavamo già per adottare precauzioni, eravamo riusciti a ottenere lo Smal, Servizio di medicina degli ambienti di lavoro…".
Cioè?
"Un organismo di recente costituzione. Un anno prima dell’incidente avevamo ottenuto, con lotte e scioperi, che un medico entrasse finalmente in azienda. A turno, aveva incontrato ogni lavoratore in una sala appartata perché esponesse la propria situazione".
Chi lavorava lì rischiava di star male?
"Tosse, pruriti, problemi di respirazione, per il rumore degli impianti c’erano solo le cuffie: ogni malessere per la prima volta veniva catalogato e messo in relazione col reparto in cui ognuno lavorava".
Cosa ne era uscito?
"Un libretto sanitario in cui veniva scritto tutto per la prima volta. Venne mandato al Ministero della Salute".
È ancora a Roma, in un cassetto?
"Probabile, ma per la prima volta si faceva qualcosa di concreto per la salute"
Poi ci fu l’incidente. Eravate preoccupati?
"Ovviamente sì. Io avevo avuto due gemelle a giugno, prima un’altra bimba".
Intanto l’Icmesa era stata chiusa. Nessuno poteva più entrarci, se non per bonificare.
"Io ero fra i lavoratori che si erano messi a disposizione per bonificare il settore B. Ci bardavamo con tute bianche, guanti e mascherine, si facevano turni di quattro ore. Raccoglievamo tutto, svuotavamo i reparti pezzo per pezzo, dovevamo portare via i fusti dei prodotti finiti e svuotare i serbatoi delle materie prime. Anche le macerie delle case che vennero fatte abbattere attorno all’azienda".
Dove finivano i rifiuti?
"Venivano portati a incenerire".
Anche quelli più pericolosi?
"No, non potevamo occuparci di quelli attorno al reattore. Per quelli vennero le squadre specializzate incaricate dal Tribunale. Nella zona A, presidiata dalle forze dell’ordine, il primo strato di terreno venne rimosso fino a 80 centimetri e vennero create due enormi vasche di contenimento, al di sopra delle quali è stato piantato il Bosco delle Querce".
Si aprì un mistero… 41 bidoni di scorie vennero inviati all’estero ma se ne persero le tracce.
"Noi non ne sapevamo nulla".
Secondo le immagini dell’epoca, quei bidoni erano blu, ma una volta rintracciati in Francia erano… ocra bruno.
"Non li ho mai visti, posso solo ipotizzare: nessuno li voleva. Troppi ne avevano paura. Potrebbero aver ridipinto o cambiato i bidoni per occultarli".
Veniste accusati, anche voi lavoratori, di connivenza con l’Icmesa
"Nulla di più falso, le mostro una delle mie vecchie buste paga: guardi qui, prendevo 33mila lire al mese, mai un soldo di più. La gente sfollata non capiva perché noi continuassimo a entrare".
Una volta chiusa l’Icmesa cosa ne è stato dei suoi lavoratori?
"Come sindacati ci concentrammo sulla Roche, la capofila. Dopo lunghe trattative alcuni ricevettero una buonuscita e andarono in pensione o prepensionamento, altri vennero assunti in altre aziende del territorio. Io tornai a fare il mio lavoro alla Hoffmann-La Roche di Milano, presi un diploma da perito chimico alle scuole serali.
Cosa è cambiato da allora?
"Tutto, l’attenzione dalla salute dei lavoratori ha fatto passi da gigante. In assemblea al cinema di Seveso, davanti a 1.500 persone, non solo lavoratori, denunciammo pubblicamente tutto: il continuo tentativo messo in atto proprio in quei giorni dai dirigenti dell’Icmesa di boicottare l’evacuazione delle sostanze chimiche pericolose della fabbrica con l’intento dichiarato di riprendere la produzione. Gli stessi medici dello Smal avevano denunciato l’alta pericolosità di una continua esposizione di lavoratori in fabbrica. L’Icmesa sin dall’inizio aveva tentato di minacciarci: ‘Se tenete al posto di lavoro, tornare in fabbrica a lavorare, altrimenti vi lasciamo a casa senza paga’. Eppure sapeva che poteva essersi formata diossina, un tossico letale, ma nessuno ce lo disse".