
Monza, 6 giugno 2021 - Povera scuola. Presidi che si comportano come piccoli dittatori con i bidelli. Genitori che insultano e mettono le mani addosso ai docenti. Storie diverse, ma spie di una situazione nel mondo della scuola che cominciava a degenerare, come raccontano due episodi accaduti oltre cinquant’anni fa in Brianza.
"Lei non sa chi sono io!". Non avrà detto proprio così, forse, ma nei fatti è come se lo avesse fatto il preside brianzolo che mezzo secolo fa fu trascinato in tribunale (e alla fine condannato) per aver costretto i bidelli in servizio nella scuola che dirigeva ad affiancare, alle normali mansioni scolastiche, anche incarichi illeciti e umilianti. Dovevano lavorare come facchini a casa sua, fungere da suoi autisti personali e domestici, sotto la minaccia di essere licenziati se si fossero rifiutati. Incredibile il caso portato alla luce in Brianza sul finire degli anni Sessanta. Gli abusi hanno inizio nel 1965 e si protraggono fino al novembre del 1968 quando i bidelli, stanchi di quell’andazzo, decidono di farsi forza e di inviare una circostanziata denuncia all’allora procuratore della Repubblica in servizio alla Procura di Monza, il dottor Filippo Lo Turco. Nella denuncia, sottoscritta da cinque persone, i bidelli raccontano a quali angherieverrebbero sottoposti da tempo dal loro superiore, che li pretende di impiegarli in lavori che esulano dal loro mandato. Come se si fosse trattato di attendenti al suo servizio o maggiordomi. "Porti a lavare la mia auto". "Passi dalla lavanderia a ritirare le mie camiche". "Mi accompagni in Provveditorato". Nessuno poteva rifiutarsi: anzi, quando avevano osato protestare il preside li aveva minacciati sostenendo che avrebbe provveduto a farli licenziare. Si erano trovati così a ubbidire uno dopo l’altro per paura. Fino a quando la situazione si era fatta tanto insopportabile che – dopo essersi confidati fra loro – i bidelli avevano deciso di fare fronte comune e ribellarsi a questo genere di "sevizia psicologica", come la definiranno gli inquirenti. La denuncia, dettagliata, era finita in mano al pretore che, dopo aver scartato ipotesi di reato più pesanti come quelle di concussione e di peculato, aveva deciso di rinviare a giudizio il preside con l’imputazione di abuso continuato di ufficio. Inutile il tentativo di difendersi a processo da parte del preside, che aveva sostenuto di non aver mai obbligato i bidelli a svolgere lavori extra-professionali. Anzi - aveva sostenuto - "si è trattato solamente di favori richiesti esclusivamente sul piano della cortesia". Nulla da fare, alla fine il giudice aveva condannato il preside al pagamento di mezzo milione di lire di multa, all’interdizione dai pubblici uffici per un anno, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni ai bidelli in separata sede. Il secondo episodio di malcostume scolastico emerso dalle cronache dei giornali d’epoca invece oggi, forse, quasi non farebbe più notizia. Cinquant’anni fa, però, non andava ancora così. Succede che nel 1969 alla Pretura di Monza si ritrovi una madre accusata di essere stata... "irrispettosa" nei confronti dell’insegnante di suo figlio. I fatti si svolgono in una scuola elementare di Monza, nelle prime ore di un pomeriggio di gennaio. Il giorno prima l’insegnante, giovane e di origini meridionali, aveva sorpreso uno dei propri alunni mentre stava facendo a botte con un compagno. Nulla di grave, tutto sommato, non fosse stato per il fatto che il maestro aveva concluso che le responsabilità del litigio manesco erano interamente ascrivibili a uno dei due bambini e, dopo una solenne ramanzina, lo aveva sospeso dalle lezioni intimandogli di tornare a scuola il giorno dopo accompagnato dai genitori. E così era andata. Il piccolo era tornato a casa anzitempo, aveva raccontato tutto a mamma e papà, ovviamente secondo il personale punto di vista, e il giorno successivo era tornato regolarmente a scuola accompagnato dalla madre. Quello che però il maestro certo non immaginava era la reazione della madr: questa, invece di cospargersi metaforicamente il capo di cenere e scusarsi con l’insegnante per conto del bambino, aveva affrontato a muso duro il docente. E gli aveva chiesto ragione della sospensione. Ma le spiegazioni del maestro in realtà ben poco interessavano alla donna e fra i due era sorta un’animata discussione che si era conclusa con una sequela di ingiurie al maestro, apostrofato con l’epiteto “terrone“. E al maestro a un certo punto era stato addirittura somministrato un ceffone. L’insegnate aveva deciso allora di rivolgersi ai carabinieri per sporgere una denuncia-querela. L’incartamento era finito a processo, dove la madre si era trovata imputata per "aver offeso l’onore e il decoro" dell’insegnante apostrofandolo con epiteti piuttosto coloriti. E alla fine la donna troppo “focosa“ – come era stata definita allora dalla stampa – era stata condannata a quattro mesi di reclusione, con pena sospesa, per ingiurie. Ma – buon per lei – non per percosse.