Cavenago (Monza) - «Un braccio era staccato dal corpo. Mio figlio è rimasto 28 minuti appeso alla pressa che non ha smesso di funzionare continuando a ferirlo. Nessuno si era accorto di niente". E’ questa l’immagine straziante che mamma Ester non potrà mai dimenticare. "Ho visto le foto. Non ne ho mai parlato prima, ma adesso c’è la sentenza: 11 mesi pena sospesa con patteggiamento per Walter Cereda, titolare della Silfa di Sulbiate". È l’azienda di packaging in cui è morto Gabriele Di Guida, responsabile della linea a meno di 45 giorni dall’assunzione, trascinato da un rullo dove rimase incastrato con una mano. Era il 10 aprile 2019.
Aveva 25 anni. "E tutta la vita davanti e invece per noi adesso ogni mercoledì è una tragedia. Quel giorno era mercoledì. Conviviamo con l’ergastolo della sua assenza. Non volevamo la pena esemplare, non crediamo neppure che gli imprenditori si alzino la mattina e vogliano uccidere gli operai. Ma questa giustizia non riesce a lenire il nostro dolore. E non parlo solo di Gabriele. Perché la condanna per il suo omicidio colposo si ripeterà in altre aule di tribunale tante volte ancora. Lo dico per tutti: questa strage deve finire".
E’ un 1 Maggio amaro nella casa di famiglia a Cavenago, qui la catena di morti e di infortuni che non cessa è insopportabile. "Il dolore non dà tregua. Col tempo aumenta. Riguardo le foto di mio figlio da bambino e penso che ci è stato concesso troppo poco. Da genitori si nasconde in un antro buio dell’anima la paura di perdere i propri ragazzi, ma c’è, i rischi sono tanti: gli incidenti, la droga. Ma non avrei mai immaginato che sarebbe successo mentre era a guadagnarsi da vivere. Abbiamo dovuto riconoscerlo dietro a un vetro, all’obitorio".
«La legge – dice Ester – impone adempimenti terribili che non ti lasciano più senza offrire ristoro, nulla che riesca ad attenuare". "Per questo oggi parlo della nostra condanna contro la quale c’è solo una strada: darci da fare perché non ci siano più altri Gabriele, altre mamme, altri papà che svengono davanti al comandante dei carabinieri che ti dice che tuo figlio non ce l’ha fatta".
La donna ricorda con lucidità ogni dettaglio di quell’alba. "Sento ancora la chiave che gira nella toppa. Erano le 5.30. Gabriele faceva il primo. Non mi sono alzata per non fargli far tardi. L’ho sentito lavarsi, vestirsi. Quando è uscito qualcosa mi ha spinto ad avvicinarmi alla porta, ma poi mi sono detta che era assurdo che lo salutassi dalla finestra, a quell’ora. Avrei svegliato i vicini. Non so quante volte ho rimpianto di non avergli gridato ‘ciao’ per l’ultima volta". E’ Giorgia, la fidanzata , ad avvisare per prima che qualcosa non va. "Ci si creda o no, quella mattina non ero me stessa. Era come se avvertissi il pericolo – racconta Ester –. Feci una serie di cose diverse dal solito rito quotidiano, fino alla telefonata. Siamo corsi alla fabbrica. Ero al cellulare con un collega di mio figlio che non voleva dirmi niente, ma alla fine ha ceduto. “Non respira più?“, gli chiesi, e lui: “Sì“. In quel momento è finita la nostra vita di prima. E ne è cominciata un’altra". Giovanni, il fratello minore di Gabriele si è appena laureato, la mamma sta per diplomarsi, papà Massimo come loro lotta ogni istante con la nostalgia. Ma lo scopo è uno solo: "Combattere contro la sua mancanza".