DARIO CRIPPA
Cronaca

Monza e il pulmino precipitato dopo un pellegrinaggio

Nella tragedia del 24 maggio 1983 morirono 13 donne della parrocchia di San Biagio

La folla angosciata dopo la tragedia (foto Nava)

Monza, 4 giugno 2017 - Un pulmino con 13 pellegrini a bordo, tutte donne anziane, più l’autista, si trova al centro di un tragico incidente. È la mattina del 24 maggio 1983 e i pellegrini sono reduci da una visita al Santuario della Madonna di Montecastello, sopra il lago di Garda: il pulmino che li trasporta affronta un tratto in ripida discesa e precipita in una scarpata dell’altopiano di Tignale, in provincia di Brescia. Un volo di venti metri. Probabilmente il pulmino, un bus navetta, perde il controllo a causa dell’asfalto reso viscido dalla pioggia. Rimbalza a zig zag sulla stradina scoscesa lunga un chilometro che porta al Santuario e precipita appunto nel vuoto. Nessun superstite.

Le donne, che facevano parte di una comitiva di una novantina di pellegrini giunti in zona con due grossi autobus, erano salite a bordo di un bus navetta messo a disposizione da un’agenzia privata del posto. Una navetta abilitata in realtà per trasportare appena 9 persone, come si scoprirà in un secondo momento, ma che quel giorno ne portava appunto 13, oltre all’autista, e che faceva la spola per salire al Santuario e ridiscendere a valle. Dopo l’incidente, il titolare dell’agenzia viene arrestato per omicidio colposo. Non appena appresa la notizia, sul luogo accorre a benedire le salme anche l’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, che si trovava da quelle parti per gli esercizi spirituali. Delle 13 vittime, la maggior parte appartiene alla parrocchia di San Biagio.

Le voci raccolte in parrocchia nell’immediatezza dei fatti e riportate dai giornali sono strazianti: «La signora Savina - (al secolo Teresa, ndr) -, madre del rettore del Centro pastorale milanese di corso Venezia don Luigi Serenthà, dava una mano in parrocchia, dalla conta delle questue ai canti da intonare alle pulizie». E ancora: «Ginetta (Gesuina Fedeli, ndr) aiutava in casa del parroco. Ida Montrasio, oltre 70 anni, andava ancora in giro in bicicletta, la più giovane invece aveva solo 55 anni». Al loro arrivo in serata dopo l’incidente, le salme sono accolte in chiesa da una folla silenziosa guidata dall’arciprete di Monza, monsignor Dino Gariboldi, e dal parroco don Mario Tomalino, sconvolto, che aveva personalmente preso parte alla gita. La veglia funebre si protrae per tutta la notte, il giorno dopo si svolge il funerale.

 

TRAGICO ELENCO

Ma ricordiamo tutte le vittime. Teresina Roselli era la più anziana, aveva 80 anni ed era vedova di un ufficiale dei carabinieri. Madre di 4 figli, viveva al rione Cantalupo. Ida Montrasio, 64 anni, casa in zona Rondò dei Pini, era madre di due figlie sposate. E aveva due nipotini, uno dei quali appena arrivato. Francesca Bertazzoni, la più giovane, con una figlia di 22 anni, aveva 55 anni. Bice Terenghi aveva 77 anni: due suoi figli si erano sposati, uno aveva preso i volti ed era diventato un padre barnabita missionario. Giulia Palma, 75 anni, aveva perso il marito e un figlio in un incidente sul lavoro, viveva in via Quintino Sella, vicino alla chiesa parrocchiale. Sua figlia era titolare di una farmacia a San Rocco. Teresa Bernini, 73 anni, vedova, aveva una figlia. Lucia Tajè, 71 anni, abitava con una figlia e il genero. Giuseppina Rossi Consonni, 79 anni, lavorava ancora in un cappellificio per tenersi attiva, viveva con figlia e genero. Gesuina Fedeli, 70 anni, abitava in via Oslavia 11, era vedova e aveva tre figli sposati. Elena Colombo, 73 anni, vedova, era la madre di don Mario Serenthà, insegnante di teologia al Seminario di Venegono Inferiore. Teresa Bonacina Serenthà, 71 anni, aveva tre figli, fra cui Piero, medico e direttore del coro Fiocco rosso, composto da amanti della montagna, e il sacerdote Luigi, rettore del Centro pastorale milanese di corso Venezia. Elide Rossi Cambiaghi, 69 anni, vedova, arrivava da Vedano al Lambro. Carolina Frigerio, pure lei da Vedano al Lambro, era vedova e aveva due figli. A loro, nel triste computo delle vittime, va aggiunto l’autista Luciano Ferrari, 49 anni, di Tignale.

 

LA RICOSTRUZIONE

«ERANO tutti finiti sul fondo, come monetine in un bicchiere». Questa frase, pronunciata quel giorno da uno dei soccorritori, fa l’effetto di un pugno dello stomaco. Il Santuario della Madonna di Montecastello, verso cui era diretta la comitiva partita daSan Biagio, è una chiesa suggestiva a strapiombo sul lago di Garda, su uno spuntone di roccia a 700 metri di quota. Per raggiungerlo, una volta scesi dai due bus Gran Turismo partiti da Monza con 90 persone a bordo, i pellegrini devono salire su navette per macinare la strada ripida e scoscesa. Succede tutti i giorni, più volte al giorno.

Questa volta però sulla strada del ritorno accade qualcosa di imprevisto: il fondo è sdrucciolevole per la pioggia caduta a intermittenza da ore, il furgone guidato da Luciano Ferrari, ex vigile in pensione, lungo un percorso che ha una pendenza del 30 per cento, urta un muretto di protezione abbarbicato su una brutta curva a gomito. Il veicolo sbanda, rimbalza, alla fine sfonda il muretto. E precipita nel vuoto. A Monza, man mano che arrivano le prime notizie, si scatena il panico. In parrocchia confluiscono decine di familiari e amici.

«Io - racconterà una delle pellegrine miracolate quel giorno dalla buona sorte - sono scesa a piedi. Quel pulmino era scomodo, col predellino troppo alto. Quando ero arrivata in fondo alla discesa, ho sentito come uno schianto, ma non ho capito cosa fosse successo. Più avanti ho incontrato un giovane che saliva gridando “il pulmino, il pulmino!”. Credevo mi dicesse di prendere il pulmino, poi ho capito».

 

TESTIMONIANZE

«ANCORA oggi, a 34 anni di distanza, ricordo benissimo cosa provammo quel giorno». A parlare così è Maria Biffi, insegnante in pensione, i capelli spruzzati dal grigio dei suoi 68 anni, la voce ferma nonostante un’emozione che traspare al riandare con la memoria a quelle drammatiche ore. «Su quel pulmino doveva trovarsi anche una mia carissima zia, che abitava proprio accanto a me, tanto legata alla mia famiglia e ai miei bambini. Molto devota, la zia Antonia partecipava spesso alle iniziative della parrocchia».

Quel giorno Antonia Barzaghi era partita insieme agli altri parrocchiani per il Santuario. «Un gruppo in larga parte consolidato, guidato da don Mario Tomalino. Ovviamente, eravamo tutti tranquilli. Ma nel primo pomeriggio arrivò, prima incerta e frammentaria, poi sempre più tragicamente attendibile, la notizia che la navetta usata dai pellegrini per salire e poi scendere dal santuario era precipitata nel vuoto. Si può immaginare l’angoscia. Abbiamo telefonato più volte in parrocchia per sapere qualcosa, ma l’unica certezza era che c’erano state vittime: non si sapeva né quante né quali persone fossero sopravvissute».

«Dopo ore di attesa, nel dubbio e nella paura, finalmente, ci fu comunicato che il pullman della gita era sulla via del ritorno - prosegue -. Andai sul piazzale della chiesa e aspettai. Lì venni a sapere che mia zia era salva: aveva deciso insieme ad altri, tra cui il parroco, di scendere a valle a piedi. Ricorderò per sempre il momento in cui si aprirono le porte del bus e la vidi, all’apparenza tranquilla. “Tè sentì ‘sa l’è success?” mi ha detto; “Hai sentito cosa è successo?”... una frase che suonava involontariamente comica nella tragedia, ma anche una frase che per me fu molto consolatoria».

Giancarlo Nava, 82 anni, memoria storica di Monza ed ex cronista de Il Cittadino, ricorda bene quel tragico giorno: «Non appena avemmo sentore di quanto accaduto mi precipitai in parrocchia. C’era tantissima gente preoccupata che attendeva notizie, che all’epoca - senza telefonini - arrivavano in modo molto frammentario. Anche il più grosso giornale della zona sapeva poco o nulla di quanto accaduto».