DARIO CRIPPA
Cronaca

"Vi vieto di pescare qui". La lettera della Monaca: "Ha paura che trovino i figli del suo peccato"

Un misterioso documento autografo venduto al Comune nel 1905 e il sospetto che celasse i segreti di suor Virginia e del suo amante. Una vicenda ai limiti dell’horror custodita oggi in una cassaforte.

Un misterioso documento autografo venduto al Comune nel 1905 e il sospetto che celasse i segreti di suor Virginia e del suo amante. Una vicenda ai limiti dell’horror custodita oggi in una cassaforte.

Un misterioso documento autografo venduto al Comune nel 1905 e il sospetto che celasse i segreti di suor Virginia e del suo amante. Una vicenda ai limiti dell’horror custodita oggi in una cassaforte.

"Io suor Virginia Maria Leyva Monacha proffessa nel Monastero di Santa Margherita di Monza, per l’hautorità qual ho dal Signor mio Padre don Martin de Leyva, prohibisco che niuna persona ardisca et presuma di pescare nel fiume del Lambro dal ponte che è al principio del giardino delli Reverendi Padri di Santa Maria Carrobiolo sin al confine della casa del Marcellino".

Monza, Anno Domini 1596. Comincia così una lettera autografa vergata da suor Virginia Maria, al secolo Marianna de Leyva. La Monaca di Monza.

Una lettera, conservata in una cassaforte dell’Archivio Storico di Monza, che apparirebbe come una banale prescrizione destinata a sfociare in una “grida“, ma che racchiude in realtà una vicenda oscura e misteriosa, un “cold case” come lo ha definito Gabriele Locatelli, Responsabile dell’Archivio storico del Comune di Monza per conto della Cooperativa CAeB.

Perché la sfortunata erede del nobile casato spagnolo, proprietario di ampi possedimenti nel Feudo di Monza, aveva deciso di vietare di pescare proprio nel tratto di fiume che scorreva all’altezza del convento del Carrobiolo, davanti al monastero benedettino di Santa Margherita dove era entrata novizia a 16 anni su costrizione paterna?

Cosa c’entrano lo scandalo e il terribile processo che l’avrebbero vista condannare a essere murata viva in una cella?

La voce popolare raccolta all’epoca dà in realtà una spiegazione quasi orrorifica. Suor Virginia, che sarebbe passata alla storia per la sua relazione clandestina con l’amante Gian Paolo Osio, lo “sciagurato Egidio“ dei Promessi sposi, si sarebbe servita del fiume per sbarazzarsi dei feti dei bambini partoriti segretamente dopo le sue illecite relazioni amorose.

Torniamo alla lettera del 1596. Tutto comincia da un oscuro personaggio, si chiama Carlo Vanbianchi ed è un noto collezionista milanese. Il 25 agosto 1905 manda una lettera al Comune di Monza: "Posseggo in una mia privata raccolta di autografi, un ordine autografo di Maria Anna o Marianna De Leyva, La famosa Monaca di Monza". Vanbianchi vuole vendere il documento "rarissimo" firmato dalla Monaca di Monza, la Gertrude dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, e per ingolosire il Comune ci mette il carico da novanta: "Alcuni storici, con certi pregiudizi in testa, hanno considerato quell’ordine come una prova che la Signora di Monza aveva gettato nel Lambro un proprio neonato, e non voleva che qualcuno lo rintracciasse colle reti o coll’amo".

Vanbianchi si affretta subito a precisare che non vuole "speculare" sul prezzo, è mosso da altre motivazioni: "Credo opportuno che l’importante autografo non potrebbe avere sede migliore se non in qualche archivio di codesta spettabile città".

Ma da dove arriva questa lettera? Il collezionista si guarda bene dallo spiegare come sia in possesso di questo documento "che, chissà per quali vicende passate, è stato da me rinvenuto ed acquistato parecchi anni fa, con molti altri documenti, da un negoziante di libri".

Al giorno d’oggi, sembrerebbe una truffa, ma il sindaco di Monza, Rodolfo Paleari, invece di cestinare la missiva chiede aiuto al suo assessore alla Pubblica Istruzione, tutt’altro che uno sprovveduto. Si chiama Giuseppe Riva, è un giovane professore di 28 anni, ed è molto scrupoloso, tanto che già dal 1898 è membro della Società Storica Lombarda. Riva studia a fondo il caso e redige una “Relazione all’on. Giunta Municipale di Monza sopra l’autografo della Signora di Monza” molto accurata.

In cui si conclude che la lettera è autentica. La grafia è proprio quella della Monaca di Monza: lo dimostra un confronto con le carte del processo che riportano la sua firma, nonostante le sue mani fossero allora state sottoposte alla cosiddetta “tortura dei sibilli”, che prevedeva che le mani subissero "strette spasmodiche, le dita chiuse tra pezzetti di legno cum funicolo corrente". Insomma, non si può che consigliare l’acquisto del documento, anche considerati i suoi riferimenti alla "fosca leggenda" che lo circonda. E ribadisce: "È voce, infatti, che la proibizione della pesca celasse nell’animo della Signora di Monza, già colpevole d’illecite relazioni con l’Osio, ben altra preoccupazione… La Monaca, si dice, aveva gettato nel Lambro un suo bambino nato morto e, col vietare l’accesso dei pescatori del borgo, badava a tener sepolto per nelle torbide acque del fiume l’orribile segreto". Riva in realtà non è troppo convinto, i tempi non combaciano.

La relazione con Osio confessata da suor Virginia sarebbe cominciata soltanto tre anni dopo la lettera. Sempre che al processo avesse detto la verità, però. Ci sono anche altre ipotesi in ballo, forse riconducibili ad altre oscure e precedenti vicende: "la relazione del Riva non manca di citare, in modo sibillino, un altro personaggio, un certo Giuseppe Molteno, agente fiscale dei de Leyva" spiega Locatelli. Molteno fu assassinato alla fine del 1597, "probabilmente ucciso dall’Osio come vendetta nei confronti della Monaca di Monza, sua futura amante, per punirla di essere intervenuta a interrompere la tresca in corso fra l’Osio e un’altra giovane monaca del Convento, Isabella Ortensi, che sarebbe poi stata allontanata dalla stessa Monaca di Monza proprio a causa della sua relazione".

Insomma, tanti misteri, l’unica certezza è che il 7 novembre 1905 il Comune decide di acquistare la lettera. La paga 100 lire, decisamente un buon affare rispetto alle 150 richieste dal venditore. Negli stessi anni lo stipendio di un ferroviere si aggirava intorno alle 120 lire mensili.