Pavia – Chiamarsi Farina è cosa normale e perfettamente lecita. Chiamarsi Salvatore, soprattutto da Roma in giù, è cosa ancora più comune. Chiamarsi Salvatore Farina può essere pericoloso e può voler dire farsi dieci giorni di galera, essere sballottato da un carcere all’altro, avere per dieci giorni il nome e anche la fotografia sul giornale della tua città e altre piacevolezze. Fino a quando qualcuno non ti spiega che il Farina camorrista non sei tu ma un omonimo di cui neppure sospettavi l’esistenza, che sei libero, te ne puoi andare, scusa tanto e a mai più rivederci.
A quarant’anni di distanza Salvatore Farina non è più qui per rievocare la sua discesa agli inferi. Se n’è andato un giorno di maggio 2020, mentre infuriava il Covid. La racconta per lui la moglie, Concetta Signoriello.
È il 17 giugno del 1983 quando scatta una gigantesca operazione che vorrebbe colpire al cuore la Nuova Camorra Organizzata, 856 ordini di cattura usciti dalla Procura di Napoli, circa 500 eseguiti, nomi importanti, scintillanti, a cominciare da quello Enzo Tortora. Nuota in quell’oceano anche un piccolo pesce che si chiama Salvatore Nicola Farina, calabrese di Caraffa di Catanzaro, 31 anni ancora da compiere. Sbarcato a Pavia una quindicina di anni prima, da piastrellista è riuscito a diventare “padroncino” di una piccola impresa edile.
"All’epoca – racconta Concetta – non eravamo ancora sposati, ma la nostra unione si era già consolidata. Nel ‘78 era nata nostra figlia. Salvatore me l’hanno portato via da sotto gli occhi. Una scena che non dimenticherò mai. Sono venuti in tre, erano in borghese, hanno detto di seguirli per delle comunicazioni. La bambina era scioccata a vedere in casa quegli estranei che poi se ne andavano con il papà. Io gli sono andata dietro, non lo lasciavo mai neanche per un momento. Camorra, arresto. Salvatore era sbalordito: camorrista lui che non era mai stato a Napoli? ‘Signora, mi hanno detto, gli prepari qualcosa, un ricambio, perché dobbiamo portarlo in carcere’. La mattina dopo è partito per Ravenna. Io e suo fratello gli siamo andati dietro”.
Salvatore non ha mai avuto a che fare con la giustizia, tranne un “incidente”, anni prima, una storia finita bene per una pistola che gli era stata trovata in una precedente abitazione. Non può sapere che il suo nome, o meglio il nome di un Salvatore Farina, è stato fatto niente meno che da Pasquale Barra, detto ‘O animale per l’efferatezza dei suoi omicidi, l’ex fedelissimo di Raffaele Cutolo che dopo la dissociazione ha voluto vestire i panni dell’accusatore.
Tre giorni a Ravenna ed ecco la nuova destinazione: Napoli, carcere di Poggioreale. Scende sotto il Vesuvio anche l’avvocato dell’imprenditore calabro-pavese, Antonio Procaccini. Il legale sfoglia quella che qualcuno ha definito la “Treccani della camorra”, quattordici volumi che i pm Felice Di Persia e Lucio Di Pietro hanno messo insieme con le confessioni di Barra e di Giovanni Pandico.
Fa una scoperta incredibile: sono tre i Salvatore Farina arrestati, suppergiù coetanei, quello di Pavia, uno di Napoli, trentenne, un Salvatore Farina di Genova, leggermente più giovane (ventotto anni). Quest’ultimo ha in comune con il pavese il nome del padre, Antonio. Ecco allora il terribile sospetto che il Farina di Pavia sia stato arrestato per omonimia.
Un sospetto che si traduce in una quasi certezza nell’interrogatorio del 24 giugno. Il magistrato è pronto, Procaccini è con lui. Viene introdotto l’arrestato che guarda con aria interrogativa i due uomini, anche quello che dovrebbe essere il suo difensore. Cos’è accaduto? Semplice: è stato portato il Farina di Genova e non quello di Pavia. C’è un solo modo per risolvere quello che è ormai il “caso” Farina: mettere a confronto accusatore e accusato. “Credo – ricorda Concetta – che in quei pochi minuti mio marito si sia giocato dieci anni di vita, cosa dico, più di dieci anni. Era spaventato, preoccupato che Barra, per ragioni sue, potesse dire di riconoscerlo. Li hanno fatti sedere su due sedie, faccia a faccia, a un metro o poco più di distanza. “Chi è questo?“, ha chiesto Barra. “Non lo conosco. Mai visto“. A suo modo è stato onesto. Salvatore era libero".
“È tornato stravolto e lo è rimasto a lungo. Aveva perso la fiducia nella giustizia, ma ricordava quei giorni senza rabbia. Alla fine arrivava a scherzarci sopra, dicendo che li aveva presi come giorni di vacanza. Ma erano stati terribili. Tutto questo è stato lo spunto per migliorarsi e dimostrare a tutti la persona che era. Si è dato al lavoro più di prima. È partito con un piccolo condominio a Cura Carpignano e un po’ alla volta, da artigiano, è diventato un costruttore stimato. Finché è vissuto è stato il “signor Farina“ e la gente si toglieva il cappello".