Pavia, 4 dicembre 2020 – Tutti pazzi per la vitamina D. Da quando sulla prestigiosa rivista di settore “Clinical Nutrition” è stato pubblicato lo studio di un gruppo multidisciplinare del San Matteo sulla correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19, sono aumentati gli acquisti di integratori. Ma Riccardo Caccialanza, direttore dell’Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo e firmatario del lavoro avverte: “La vitamina D non è la panacea, non sostituisce il vaccino e non protegge dal contagio sostituendo i dispositivi e le misure che vengono consigliate da mesi e non devono essere disattese. Può però essere una preziosa alleata per ottimizzare le terapie e prevenire le forme più severe di alcune infezioni. Alcuni Paesi come Israele e la Gran Bretagna hanno cominciato a somministrarla. Il costo è basso, si tratta di 10 centesimi al giorno e i benefici sono molteplici se ci si affida al medico per i dosaggi e non al fai da te”.
Stando agli studi, la nostra dieta non garantisce il fabbisogno giornaliero di vitamina D e neppure nei Paesi del Nord Europa dove mangiano molto salmone e aringhe riescono ad assumerne nelle dosi adeguate. Ancora peggio poi se si tratta di anziani e pazienti fragili che mangiano poco e non sempre in modo corretto. Quindi anche in Italia potrebbe essere data la vitamina D e non solo adesso che siamo in tempi di pandemia. Un’integrazione, associata al sole che nel nostro Paese non manca, potrebbe risultare preziosa.
“Un deficit di vitamina D – ha proseguito Caccialanza – è associato a un aumento dei rischi legati a patologie oncologiche, cardiovascolari e immunitarie. Seguendo le prescrizioni del medico per un dosaggio calibrato ed effettuando esami del sangue periodici, i livelli di tossicità sono bassi e si riesce a mantenere la massa muscolare, il benessere delle ossa e le infiammazioni sono ridotte. Non sostituisce i farmaci che i medici prescrivono, ma può essere utile”.
Ed è tutta la nostra alimentazione, di cui si parla solitamente in vista della prova costume, ad essere stata al centro di un’analisi nutriCovid che il dottor Caccialanza insieme ad altri colleghi ha effettuato in nove ospedali e su 1200 pazienti. I risultati di questo studio saranno pubblicati a breve e ci diranno se vi sia un legame tra quello che mangiamo e la possibilità di ammalarsi.