Immaginiamo di avere decine di immobili affittati a soggetti che non conosciamo, ad un canone sconosciuto, e, in ogni caso, molto basso. Ora sostituiamo “decine” con 4000 km, e “immobili privati”, con “spazi pubblici” e abbiamo fotografato l’attuale contesto di concessioni balneari dello Stato Italiano. Una condizione di mancate riforme, mancati adeguamenti al diritto europeo e di stallo politico che rischia di creare una vera e propria crisi all’interno del Governo Draghi. L’Italia ha circa 7500 km di coste, il 60% di quelle sabbiose sono gestite da stabilimenti balneari. Il ruolo degli stabilimenti è riconosciuto per il suo valore: le strutture mantengono la pulizia della spiaggia, presidiano, garantiscono sicurezza e servizi ai turisti. Ma a quale costo?
Il costo di questo presidio può essere identificato come un costo pubblico, o meglio, un mancato introito, poiché da oltre sessant’anni, le concessioni demaniali vengono gestite dagli enti locali attraverso continui rinnovi, mancate messe in gara, e canoni di locazione disallineati dagli attuali valori di mercato. Nessuno, fino ad oggi, è riuscito a riformare il sistema delle concessioni balneari. Ci ha provato l’Unione Europea, con la Direttiva Bolkestein, sospesa dagli enti locali in Italia e disapplicata in tutto il territorio. E, timidamente, ha provato anche Draghi, proponendo un’analisi quantitativa delle concessioni attualmente in corso, interpretata come una cauta strategia di attacco al sistema.
Ciò che infatti sorprende è che al momento non esista un registro unico delle concessioni demaniali italiane e sembra che nessuno abbia mai avuto la volontà di svilupparlo. 52.619 stabilimenti balneari rappresentano una forza di almeno un milione di voti distribuiti sul territorio italiano. Voti che cambiano le sorti di elezioni locali, in particolare regionali e comunali, in tutti i territori costieri. Voti che nessuno vuole toccare, elettori che nessuno (o quasi vuole scontentare). Tra i sostenitori del “no a qualunque riforma” vi sono in particolare Fratelli d’Italia e Lega, alcune posizioni simili sono state sostenute da esponenti di Forza Italia, mentre il PD ha raramente preso posizione.
I detrattori della messa in gara delle aree ritengono pericoloso rischiare di poter concedere aree demaniali ad operatori stranieri (come grandi lidi internazionali, società estere). Chi parla di un rischio “militare”, chi rivendica ragioni di opportunità politica: una sorta di sovranismo commerciale. La messa in gara delle aree, però, permetterebbe allo Stato italiano di incassare molto più di quanto non incassi oggi, ovvero circa 100 milioni di euro. Non solo: maggiore concorrenza potrebbe portare ad una riduzione dei prezzi e ad un miglioramento delle strutture. Ma, al momento, non sembra essere un’opzione. Alcuni decisori politici hanno però iniziato a muovere alcune piccole battaglie locali e nazionali: il Sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, nel 2018 ha deciso di non applicare la direttiva del Governo che prevedeva il rinnovo delle concessioni fino al 2023.
I balneari avevano presentato ricorso di fronte al TAR, che aveva dato loro ragione, e il primo cittadino aveva quindi deciso di impugnare il caso di fronte al Consiglio di Stato, che con una sentenza storica ha stabilito la decadenza di tutte le concessioni entro il 2024. Come lui si sono mossi, su altri livelli istituzionali e politici, Francesco Berti, deputato del Movimento 5 Stelle, primo firmatario di una proposta di riforma delle concessioni balneari e Stefano Patuanelli, il primo Ministro del Governo Draghi a parlare apertamente di necessità di riforma. Mario Draghi ieri ha ripreso in mano il dossier, fino ad oggi di competenza del Ministro Giorgetti.
La Lega, cedendo la delega, potrà evitare di prendersi la responsabilità politica di dare enforcement alla sentenza del Consiglio di Stato e di approvare la strategia di mappatura del Primo Ministro. La battaglia per la riforma delle concessioni demaniali, però, è tutt’altro che semplice e rischia di incrinare il rapporto tra Draghi e la Lega, al momento necessaria per garantire la maggioranza in Parlamento. Draghi si troverà di fronte all’obbligo di scelta: trasparenza e applicazione del diritto europeo, o vittoria di un consenso politico ben organizzato e, al momento, determinante.