SUSANNA ZAMBON
Cronaca

Chernobyl, silenzio nucleare: il reportage del fotografo valtellinese /FOTO

Trentatré anni dopo il viaggio Simone Grossi

Chernobyl

Sondrio, 3 luglio 2019 - Foto che si fa fatica a guardare, figurarsi a scattarle, che raccontano la devastazione causata da un fatale errore umano 33 anni dopo. È una Chernobyl poco conosciuta quella che Simone Grossi, fotografo professionista originario di Milano ma da vent’anni in Valtellina, vuole raccontare attraverso le sue immagini, un reportage carico di emozione da cui traspare tutta l’angoscia provata dal fotografo nel suo viaggio in Ucraina.

«La foto che ho fatto più fatica a scattare è quella che immortala alcune paia di scarpe da bambino, abbandonate ma messe bene in ordine, una accanto all’altra, tra le macerie – racconta Simone, mal celando l’emozione nella voce e nello sguardo –. Quello era l’asilo di Prjpyat, la cittadina oggi fantasma più vicina alla centrale di Chernobyl, che prende il nome da un altro paese poco distante. In quell’asilo sono morti tutti i bambini presenti quel maledetto 26 aprile del 1986, quando il più grave incidente nucleare mai verificatosi in una centrale sconvolse la vita di migliaia, milioni di persone». Di Chernobyl in questo periodo si parla molto, l’omonima serie tv in onda in questo periodo ha riportato l’attenzione su un episodio che ha segnato la storia europea e non solo. «Ma di cui ancora non si sa molto, c’è tanta disinformazione – afferma il fotografo quarantunenne –. Per questo motivo ho deciso di andarci, per vedere con i miei occhi, per sapere di più e poi raccontare attraverso le mie foto quello che è accaduto e quali sono, 33 anni dopo, le conseguenze di quel disastro. La mia curiosità è nata leggendo un articolo sul fotografo ucraino Igor Kostin, il primo ad immortalare il disastro di Chernobyl. La sua storia, le sue foto, mi hanno colpito, ho deciso che volevo andarci e l’ho fatto nell’aprile scorso, nel trentatreesimo anniversario». Un viaggio organizzato minuziosamente insieme a sette colleghi. Perché a Chernobyl si può andare, e prendendo le dovute precauzioni non ci sono particolari rischi, ma tutto deve essere pianificato, anche perché per visitare la centrale servono permessi, carte, autorizzazioni.

Non si può improvvisare. «Tante immagini mi hanno colpito dritto al cuore – racconta ancora Grossi –. Camminare per le strade di Prjpyat è stata un’esperienza surreale, l’orologio si è fermato e l’unico indizio che fa capire quanto tempo sia trascorso lo fornisce la natura, che al contrario degli umani ha saputo adattarsi alle radiazioni e si sta riprendendo gli spazi che l’uomo le tolse. A Prjpyat non c’è più nessuno, furono tutti evacuati con un colpevole ritardo di 36 ore che ebbe la tragica conseguenza di far assorbire ai quasi 50mila abitanti una quantità di radiazioni praticamente per tutti letale. Fu detto loro di portare il minimo indispensabile perché secondo le autorità sovietiche sarebbero tornati a casa entro pochi giorni, invece nessuno vi rimise più piede. Visitare questa città è stato come fare un viaggio nel tempo, nell’Unione sovietica degli anni Ottanta. Da allora nella “zona di esclusione”, quel perimetro istituito dal Governo e presidiato dai militari che si estende per un raggio di 30 chilometri dalla centrale, nessuno potrà più abitare per i prossimi 24mila anni».