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Dai Club Dogo a Marracash, l'evoluzione dell'hip-hop nella Barona di Milano, tra cultura underground e mainstream.
In principio furono i Club Dogo. Era il 23 aprile 2003, giorno di uscita del loro primo album, “Mi Fist“. Una rivoluzione. Targata Barona. La loro amata Barona. Il merito più grande di quella band che avrebbe fatto la storia? Portare l’hip-hop fuori dalla nicchia di puristi dove era stato rinchiuso fino ad allora e diffonderlo, contemporaneamente, sia nelle discoteche pettinate del centro che tra gli “zarri“ delle case popolari. E le loro rime diventarono Polaroid che immortalavano la vita della Milano (e non solo) di allora, in quegli anni selvaggi e anarchici, tra l’arte e la malavita, miglia lontani dal “pop“ pettinato.
Barona, Milano sud-occidentale, 100mila abitanti o giù di lì e un perimetro delineato dalle vie Boffalora, De Pretis, Mazzolari, Cascina Bianca, De Finetti e Danusso, fino a lambire Romolo, Famagosta e le acque placide dei Navigli. Monumento simbolo, la chiesa di San Giovanni Bono, firmata da Arrigo Arrighetti, plasmatore del quartiere Sant’Ambrogio, che volle erigere quella chiesa “brutalista“ in cemento a vista diventata scenografia del video di Guè Pequeno per “Trap Phone“.
Oggi il quartiere ha cambiato pelle, tra la crescita esponenziale dei poli universitari attorno a Iulm e la Naba, con l’Ospedale San Paolo e il nuovo distretto The Sign. Ma il cuore vero della Barona batte ancora lì, tra le case popolari e gli occhi aperti sulle periferie dei Club Dogo. Anche se oggi la cultura hip-hop è diventata mainstream, da movimento underground di rottura è mutata in fiorente industria macina soldi entrata di prepotenza nella moda e nel lifestyle delle persone. In una Milano a tratti irriconoscibile, chiusa sempre più in una bolla immobiliare che tende a trattenere solo un ghetto iper-gentrificato di benestanti, cercando di scacciare fuori dai margini chi non rientra nel disegno. Eppure, Barona resiste.
E dopo i Club Dogo (intramontabili, riuniti dopo un misterioso scioglimento a suon di sold out), Marracash. Altro figlio della matrigna Barona. Da “Bastavano le briciole“ a “La via di Carlito“, “Badabum Cha Cha“ e album-pietre miliari come Fino a qui tutto bene (2010), King del rap e Roccia Music 2 (2011), Status (2015) e Santeria (2016) con Gué Pequeno. Fino all’ultimo “È finita la pace“, disco di platino.
E se c’è una cosa che Marra non ha mai dimenticato è il suo quartiere, dove è iniziato tutto: la Barona. In “Bastavano le briciole“ canta la storia della sua vita, una famiglia ricca di affetto ma senza denaro, “non studiata“, arrivata dalla Sicilia a Milano con il sogno della rivincita e finita in una casa “dietro una risaia”. Le citazioni della Barona nei testi della discografia sono infinite, e ancora oggi che non vive più lì - "Non sono cambiato ho solo cambiato domicilio" canta in “Nulla accade“ nel 2016 - Marracash rimane paladino del suo quartiere, di quei ragazzi che ancora la vivono, e che un giorno sognano di abbandonarla. Come Young Rame, featuring Marracash, nelle rime del tributo supremo: “Barona“.
Dalle canzoni allo schermo. Perché la fiction “Zero“ di Netflix ha portato su tv, pc e tablet dei più giovani - ancora - la Barona. Protagonisti un gruppo di ragazzi immigrati di seconda generazione, nati a Milano da genitori stranieri; e per questo devono affrontare lo scoglio del razzismo misto a pregiudizio. La fiction si svolge al Barrio, un quartiere di fantasia (che nella realtà è appunto la Barona) alla periferia sud-ovest, dove lo spazio più simbolico è il Barrio’s, un luogo di aggregazione nell’allora deserto periferico metropolitano per i giovani fortemente voluto da don Gino Rigoldi oltre di vent’anni fa. E ora diventato culla della cultura underground, fra rap, trap, street art. Sempre lì, in quel fazzoletto di cemento prima del verde e giallo del Parco Sud. E anche se oggi lo scenario è completamente diverso, la trap e il rap sono dappertutto. A Milano l’immigrazione dal sud è stata sostituita dai figli e dai nipoti degli stranieri che invece di fare i calciatori sognano tutti di fare i rapper (e poi gli influencer), perché ci sono i soldi e perché vedono la musica come unica soluzione di riscatto sociale. La risacca porta continuamente a riva nomi nuovi, alcuni dei quali restano nell’immaginario della gioventù più o meno bruciata: tra i tanti, Shiva, Baby Gang e Rondo.
Tra ragazzi ci si chiama “brò”, la moda è dilagata dal centro alla periferia e poi di nuovo si è irradiata da Milano alle periferie d’Italia (tutte le altre città), mentre gli “eroici“ trapper contemporanei finiscono sui giornali più per gli arresti e le sparatorie che per le rime che scrivono. Intanto, più o meno nel silenzio, a Milano la forbice tra ricchi e poveri si è allargata a dismisura e i ragazzini non passano più le giornate in piazza a sognare assieme ma a scrollare sui telefonini pagine social di persone che fanno la bella vita su auto ultra-costose, in ristoranti ultra-chic o su yacht ultra-esclusivi. Tutto ultra. Mentre la vita delle case popolari resta la stessa, misera, di sempre. E con ancor meno opportunità di una volta. Di lì al pensiero "Se ti punto un coltello alla gola posso avere tutto quello che voglio", purtroppo, il passo è sempre più breve. E i casi di cronaca nera sono lì, ogni giorno, a testimoniarlo in modo concreto. Così si è trasformata in vent’anni la Milano di “Mi Fist“.