Lo iettatore e l’oggetto che porta sfortuna attraversa da sempre la storia del teatro, vero e proprio tempio della scaramanzia. Nell’Inghilterra teatrale, nessuno s’azzarda a nominare il Macbeth, optando per "la tragedia scozzese" giacché si dice che Shakespeare abbia usato per le sue streghe autentiche formule magiche, essendone da queste maledetto.
Il viola (colore dei paramenti liturgici quaresimali, periodo in cui i teatri avevano l’obbligo di restare chiusi e quindi senza introiti) è aborrito sui palcoscenici, e sono celebri (la Giulietta Simionato…) certe sfuriate di artisti contro scenografi o costumisti che sfidavano la scalogna. Al contrario, certi oggetti sono considerati portafortuna, come i chiodi ritorti: tutti i direttori di palcoscenico procuravano di spargerne vagonate prima d’ogni recita di Pavarotti.
Ma poche scaramanzie battono quelle legate all’opera inaugurale della prossima stagione scaligera, il nome della quale si cerca d’evitarlo ricorrendo a corna e laboriose perifrasi sul tipo la Potenza del Fato. Motivo? Nel libretto originario, arbitrariamente alterato dalla tradizione (ma io faccio voti affinché Chailly ne ripristini il testo), la frase pronunciata da Alvaro allorché racconta il tentativo paterno di abbattere il dominio spagnolo in Perù era "fallì l’impresa", con inevitabile raccapriccio di tutti gli impresari e artisti, che la mutarono in "fu vana impresa".
In più, nel 1960 il celebre baritono Leonard Warren cadde fulminato da un’emorragia cerebrale proprio mentre cantava la romanza di Carlo. E il frequentatore scaligero ben si ricorda il 7 dicembre 1965, allorché l’entusiastico e sacrosanto festeggiamento tributato al grande Carlo Bergonzi protagonista della Forza fu turbato dalle decine e decine di volantini invocanti una non meno sacrosanta galera per quel Felicino Riva da poco ex padrone del Milan, che aveva fatto fallire il glorioso Cotonificio Vallesusa creato dal padre, mandando a casa ottomila persone.
Pure, stando ai nudi fatti teatrali, quest’opera ha sempre avuto fortuna alla Scala: begli spettacoli, ottimi cast, grandi direttori. Sfortunata, semmai, per l’incomprensione riservatale da una caterva di direttori, tesi a “migliorare” quel povero Verdi che di teatro pare non capisse niente: tagli grandi e piccoli (fino agli anni Settanta al Met tagliavano l’intera scena dell’osteria), spostamenti della Sinfonia a intermezzo tra primo e second’atto (proprio un mese fa è ancora successo al Liceu di Barcellona), epiteti pesanti indirizzati all’invece geniale personaggio di Preziosilla, e via dicendo. Per fortuna è lecito sperare che, magari tenendo in tasca uno o anche due cornetti portafortuna, Riccardo Chailly dia a Verdi quanto sacrosantamente è di Verdi.