GIORGIO
Varese da Vivere

Viaggio nel cuore prudente dell’Italia ricca

Il maestro Giorgio Bocca nei suoi reportage sull’Italia Rivisitata per il Giorno l’8 aprile 1969: "Qui perfino i comunisti sono svizzeri..."

La pagina dedicata dal Giorno al viaggio dell’inviato speciale Giorgio Bocca a Varese nel

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Giorgio

Bocca

Venendo da Piacenza a Varese noto subito una differenza: se quella "galleggia sulla merda" questa ci si specchia, con le ville e i condomini attorno al lago impestato dagli spurghi della libera iniziativa privata che, a intossicazione avvenuta, passa la mano agli enti pubblici perché trovino i 4 o 5 miliardi occorrenti alla depurazione e allora ogni ente passa la mano all’altro, ciascuno ben fornito di quelle perizie contraddittorie che la scienza oggettiva fornisce a pagamento, cosa piuttosto ovvia nella città che alzò le saracinesche, poche ore dopo l’occupazione tedesca, al mormorio di "paghen, paghen". Proprio così, nel dramma come nella fortuna, dal bel corpo florido esce sempre un mormorio prudente. Siamo nel cuore dell’Italia ricca, nella città della piena occupazione. La tredicenne Maria Teresa Conconelli fuggita l’altra settimana da Milano e trovata dormiente qui, in un vagone ferroviario, aveva già il posto in una fabbrica di plastica per l’indomani. Due o tre occupati per famiglia, una villa per ogni professionista che si rispetti, le salumerie più fastose e trionfanti della penisola, il terreno fabbricabile salito, in periferia, 50.000 al metro, una squadra di calcio in serie A (se ne occupi Borghi junior, se ne occupi), due di pallacanestro nelle maggiori divisioni, una pista ciclistica, un galoppatoio, piscine, jet privati, una opposizione di comunisti "svizzeri" che ogni tanto fanno arrivare un duro da altre province e nello spazio di tre mesi e già prealpinizzato, ha già l’occhio ceruleo e mite, la Ignis del patron Borghi (si riguardi, signor Borghi, non li faccia piangere troppo di commozione i suoi operai) e dietro le tremila o quattromila industrie della città — chi lo avrebbe detto nel 1930 quando era un borgo contadino modesto modesto — e adesso guardatelo, anzi ascoltatelo, zitti, sta per parlare, chi sa cosa ci dirà. Arriva dall’alto un borbottio con inflessione lombarda: "Scusi, che cosa ha detto?". Si china e finalmente si capisce: "Non creiamo allarmismi — ha detto —: costruire, non distruggere, ecco quel che penso". Difatti: negli ospedali primari faraonici amministrano dogliottescamente il potere per matrimoni e clientele, spartendosi padiglioni e cliniche, impedendo l’apertura di ospedali "scomodi per le mie visite" o lontani dalla zona in cui possiedono terreni: e dica pure il giudice, in morte di una puerpera e in condanna di un medico di guardia: "Dietro di lei ci sono i veri responsabili morali": lo dica, tanto l’informazione di qui non lo pubblica, non si sa mai, potrebbe uscirne un’organizzazione sanitaria degna di un Paese civile. L’agosto scorso la signora Doris Gottler, in un momento di nervosismo, piantò un coltellaccio da cucina nel dorso del suo legittimo consorte, povero ragazzo, il dottor Zighetti: lei via subito come inferma totale di mente: del fatto e di lui, povero ragazzo, non una parola perché la sana informazione provinciale tace le cose sconvenienti, dal professore omosessuale agli scioperi, sente la Svizzera e i silenzi borghesi della Gazette de Lausanne. Chi la dirige è solito dire ai redattori: "Voglio vedervi tutti qui come le lattine dell’olio" (televisivo), che non si muovano in cerca di notizie per carità e che non abbiano idee, se a qualcuno gliene una via subito, la faccia sparire in una delle toilettes bianche (...)

Il gigante economico è ogni anno più gigantesco. Lui gonfia il torace, tende i muscoli del collo, spalanca la bocca: signore ingioiellate e signori in scuro affollano il teatro Impero per il massimo avvenimento culturale dell’anno, la presentazione del film Apollo 8 fatta da Ruggero Orlando (ma qualcuno dice Calindri, l’interprete di China Martini). Erano presenti ma si sono salutate freddamente la signora Bellora, presidentessa della Croce Rossa, e la signora Rusconi, vicepresidentessa. "Non sapete? La signora Bellora ha chiesto al signor Rusconi, padrone del Kursaal, la sala per il ballo benefico e siccome il Rusconi le ha sparato un milione e andata dal Borghi che non ci ha pensato in minuto e le ha subito dato gratis il Bel Sit". "Dio, povera vicepresidentessa, chi sa cosa ne hanno scritto i fogli locali". "Niente, mancava lo spazio, era tutto occupato da un bel servizio sulla Grecia, che è piaciuto tanto al commendator Ferrario, per dire come sono bravi i colonnelli e che, la loro è vera democrazia occidentale". "Capisco: costruire, non distruggere". Insomma il gigante economico così voglioso di costruire e di costruire bene ogni tanto si fa prendere da slanci tecnologici e desidera, che so, o l’Università della plastica oppure il più avanzato ospedale psichiatrico d’Italia: salvo ad accorgersi, con sgomento, che il progresso tecnologico può voler dire progresso sociale, rinnovamento e frattura sociali e che i sei psicoanalisti accorsi da altre città d’Italia per fare nuove istituzioni e nuove terapie sono dei “matti” o dei marziani, capaci di consegnare in bianco la prova scritta di un concorso, ma "cosa si credono quei signori? Noi il bilancio lo dobbiamo chiudere in pareggio". Quei signori sono sei giovani studiosi che come molti giovani hanno il merito (o il torto politico) di non tollerare più l’ipocrisia provinciale e nazionale e preferiscono uscirne rinnovando dovunque l’eterno quesito fra la rivoluzione velleitaria e il riformismo impossibile. Il corpo sano e alacre li sta, "rigettando", questo bel corpo vigoroso, con un piccolo cervello e un’anima flebile. Egli sa di essere virtuoso alla maniera prealpina, conosce le sue esemplari qualità lavorative, la tenacia, la parsimonia: ma al cospetto della incredibile ascesa degli ultimi trent’anni non crede ai suoi occhi e neppure a se stesso, gli sembra impossibile di essere arrivato, lui povero diavolo, così in alto e così lo attribuisce in parte agli interventi esterni, a quella protezione dall’alto che è mancata, per dire, ai meridionali: "Sì, lavorano poco i napoli, ma non ci hanno mica fortuna": modestia che assegneranno fra i tratti simpatici degli indigeni se non si sapesse che l’elogio della nonna fa presto a mutarsi in coscienza razzista della stirpe fortunata.